Sarebbe difficile, anche per i linguisti più affermati, cercare di stabilire il numero esatto delle parole che compongono una lingua. Questo perchè la lingua è una forma costantemente in mutamento, arricchita sempre da forestierismi, neologismi e qualunque altra forma linguistica che permetta la formazione e l’introduzione di parole nuove.
Tuttavia, nonostante molti diano poco peso alle parole, è sempre incredibile osservare come alcune possano avere un effetto profondo sulle persone.
E qui arriviamo al macabro tema di cui vorrei parlare io.
Non c’è un modo semplice per introdurlo, in realtà.
Posso dire che ho sempre notato come le persone diventino strane quando si parla di alcune questioni: una di questa è la morte. Quel macabro argomento di cui nessuno vuole mai parlare, come se ci fosse il pericolo che, anche solo pronunciando il suo nome, ella possa arrivare vestita con il suo lungo abito nero, incappucciata, e pronta a brandire su di noi la sua enorme falce.
Ho sempre avuto come l’impressione che le persone non riescano (o non vogliano) usare questa parola perchè la mente umana, così protratta costantemente verso la sopravvivenza individuale, non sembra essere in grado di tollerare che esista qualcosa di così imminente, capace di travolgere il suo perfetto piano di vita.
L’ispirazione per affrontare questo delicato tema l’ho avuta qualche settimana fa: ero in chiesa ad ascoltare con particolare attenzione la predica di un prete che stava dicendo una messa commemorativa. Era una domenica di un pomeriggio qualunque, ma noi riuniti in quella chiesa eravamo chiusi in un silenzio assordante.
Il prete stava dando il meglio di sè nello spiegare come la morte fosse un elemento inevitabile e costantemente presente nella vita di ognuno.
E così fiumi di parole riempivano la chiesa, mentre nella mia testa risuonava solo la frase “Tutto ha un inizio e tutto ha una fine“.
E più lui insisteva su questo concetto, più io mi domandavo come mai fosse tanto difficile per l’uomo concepirlo.
Così, come spesso mi succede, ho incominciato a riflettere sulla questione.
Ho iniziato a pensare che se tutti noi accettassimo questo concetto, forse potremmo imparare a vivere meglio una vita che spesso sprechiamo e buttiamo via: se tutti capissimo davvero quanto il nostro tempo sia limitato, forse potremmo farne un uso decisamente migliore.
Ma queste erano solo le riflessioni più banali: il bello deve ancora arrivare.
La mia mente fantasiosa, infatti, ha deciso di partorire un’idea tanto folle quanto incomprensibile: e se imparassimo quotidianamente ad accettare che le persone a cui vogliamo bene un giorno non ci saranno più, potremo forse limitare la nostra sofferenza quando questo accadrà?
Idea assurda quella di pensare che la vita possa essere un quotidiano esercizio di contatto ed abitudine con la morte, quando forse sarebbe meglio abbandonarsi al presente senza dar peso a ciò è destinato ad accadere.
Io credo che se ti ritrovi ad essere cosciente del fatto che tutto ciò che possiedi oggi potrebbe abbandonarti domani, allora è meglio accettare la vita come un percorso basato sui nostri quotidiani passi.
Cercare di svegliarsi ogni mattina con un obbiettivo, da portare a termine entro sera: se ci si sente troppo stretti nelle armature che indossiamo ogni giorno, l’unica soluzione sarà quella di toglierle ed accettare il bene e il male di noi stessi, così come quello delle altre persone; inoltre, prendere ogni delusione come una spinta verso il miglioramento può essere il miglior modo di vedere la vita come quello straordinario dono che non sempre ci meritiamo.
E solo accettando il corso degli eventi si può pensare a come i legami che ti è stato concesso di costruire non siano destinati a spezzarsi, bensì ad essere mantenuti, vivi e vividi, dal ricordo; a come le tue parole, se scritte, possano essere conservate e rilette milioni di volte, affinchè le persone possano rivivere quella parte così profonda di te.
E l’amore, l’amicizia, la vita stessa… tutte immortalate in quegli scatti, quelle foto capaci di rubare il tempo e fossilizzare quel momento, affinchè non muti il tuo aspetto e non stravolga il tuo sorriso.
Essere ricordati da qualcuno, o forse dal mondo intero: questo darebbe un senso a quel cammino che qualcun altro ha scelto al posto nostro, ma che siamo stati noi a voler percorrere.
Martina Vaggi
Mese: ottobre 2015
Tennis: sembriamo tutte persone normali prima di mettere piede su quel campo
Uno scarto a destra.
Le gambe che si piegano leggermente e trovano la loro stabilità ancorandosi alla terra; una torsione del busto, poi il braccio destro si muove in avanti, usufruendo della spinta del corpo, come se fosse animato da volontà proprie.
Il tennis: due “dritte”sul movimento del corpo
Nella maggior parte dei casi è il dritto il colpo vincente del tennis e il braccio che ne compie lo svolgimento è il motore di tutto il corpo, la parte fondamentale: la racchetta, col tempo, non diventerà altro che un prolungamento di quel braccio.

Le gambe devono scattare a destra, a sinistra, di lato e in avanti: le suole delle scarpe scivolano sulla terra rossa, insanguinandone le stringhe e le calze.
La schiena è dolorante a causa di movimenti tanto asimmetrici e il cuore impazzisce minuto dopo minuto, ma non hai il tempo di curartene: nel tennis tutto ciò che è dolore ha senso di essere assaporato.
Con il tempo, comunque, ci si fa l’abitudine a questo.
Il dolore è una costante nel tennis: è la parte che non può mancare in questo sport.
Il dolore fisico ti mantiene vigile, attento ad ogni errore che non puoi permetterti di commettere.
L’occhio è sempre puntato su quella pallina gialla, perchè sai che l’unica cosa che conta davvero è far in modo che superi la rete e atterri all’interno del rettangolo segnato dalle righe bianche, che delimita anche il campo del tuo avversario.

Giocare a tennis: ogni punto conta
Il tennis è uno sport meschino.
Chi lo pratica, lo sa.
Chi lo pratica, ormai ci è abituato.
Chi pratica questo sport ha imparato a sue spese quanto caro possa costare ogni errore compiuto: ogni giocatore sa che il punteggio è l’unica cosa che tiene la mente ben ancorata alla partita che sta giocando, e quindi all’obbiettivo da raggiungere: vincere.
Ogni punto conta. Ogni errore conta.
Lo capisci quando sei sul 40 pari.
In quel momento apprendi un mantra che devi tenere bene a mente per tutta la partita.
Ogni punto conta.
Questo è il tennis.

Il tennis: lo sport del diavolo
Giocare a tennis rappresenta una sfida continua.
Prima di iniziare a praticarlo avevo sentito molti pareri discordanti a riguardo: alcuni lo denigravano, definendolo uno “sport per gente ricca e snob“, mentre altri lo chiamano “lo sport del diavolo“.
Una volta iniziata la mia modesta carriera agonistica mi sono resa conto che i primi che ne avevano sparlato non potevano che essere inesperti del settore, persone che non sapevano neanche di che forma fosse la pallina; i secondi, che gli avevano dato quel soprannome, non potevano essere altro che tennisti, più o meno esperti.
Non esiste soprannome più azzeccato per questo sport, così come non esiste un modo felice e sereno di viverlo.
Andando avanti, man mano che la mia modesta carriera agonistica proseguiva, mi resi conto di una cosa che è bene cercare di capire fin dalle prime partite.

Se vuoi giocare a tennis devi capire chi è il vero avversario
Non è l’avversario che ti trovi di fronte dall’altra parte del campo.
Quello è il tuo avversario, certo. Sulla carta c’è scritto così.
Ma non è lui il più grande problema che incontrerai su quel campo.
Il vero problema non risiede nell’avversario dall’altra parte: il vero dilemma non è la sua enorme grinta o la sua velocità di gambe o la sua resistenza.
Se vuoi trovare il vero avversario da affrontare e il vero limite da superare non devi fare altro che dare un’occhiata alla tua immagine riflessa nello specchio, perchè solo tu puoi essere il peggior nemico di te stesso.
La tua mente sarà il tuo limite più grande su quel campo.
O la tua benedizione.
La mente ti permette di muovere i piedi, di resistere alle provocazioni di un avversario molesto e di lottare fino alla stretta di mano.
Questa continua lotta contro te stesso ti porta ad odiare questo sport fino a lanciare la racchetta contro la rete dalla frustrazione, ma, allo stesso tempo, l’amore per questa continua sfida ti impedisce di abbandonare il campo.
Una volta iniziato a giocare la voglia di vincere si impossessa di te e spinge ogni lato negativo del tuo carattere fino al limite estremo.
In effetti, sembriamo tutte persone molto normali e posate… poco prima di mettere piede su quel campo.
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Martina Vaggi
Lo sport del diavolo
Uno scarto a destra, le gambe che si piegano leggermente e trovano la loro stabilità ancorandosi alla terra; una torsione del busto, poi il braccio destro si muove in avanti, usufruendo della spinta del corpo, come se fosse animato da volontà proprie.
Nella maggior parte dei casi è il dritto il colpo vincente di questo sport e il braccio che ne compie lo svolgimento è il motore di tutto il corpo, la parte fondamentale: la racchetta, col tempo, non diventerà altro che un prolungamento di quel braccio.
Le gambe devono scattare a destra, a sinistra, di lato e in avanti: le suole delle scarpe scivolano sulla terra rossa, insanguinandone le stringhe e le calze.
La schiena è dolorante a causa di movimenti tanto asimmetrici e il cuore impazzisce minuto dopo minuto, ma non hai il tempo di curartene: in questo sport tutto ciò che è dolore ha senso di essere assaporato. Il dolore fisico ti mantiene vigile, attento ad ogni errore che non puoi permetterti di commettere.
L’occhio è sempre puntato su quella pallina gialla, perchè sai che l’unica cosa che conta davvero è far in modo che superi la rete e atterri all’interno del rettangolo segnato dalle righe bianche, che delimita anche il campo del tuo avversario.
Chi pratica questo sport ha imparato a sue spese quanto caro possa costare ogni errore compiuto: ogni giocatore sa che il punteggio è l’unica cosa che tiene la mente ben ancorata alla partita che sta giocando, e quindi all’obbiettivo da raggiungere: vincere.
Giocare a tennis rappresenta una sfida continua. Prima di iniziare a praticarlo avevo sentito molti pareri discordanti a riguardo: alcuni lo denigravano, definendolo uno “sport per gente ricca e snob”, mentre altri lo chiamano “lo sport del diavolo”.
Una volta iniziata la mia modesta carriera agonistica mi sono resa conto che i primi che ne avevano sparlato non potevano che essere calciatori, o comunque persone che non sapevano neanche di che forma fosse la pallina; i secondi, che gli avevano affibiato quel soprannone, non potevano essere altro che tennisti, più o meno esperti.
Non esiste soprannome più azzeccato per questo sport, così come non esiste un modo felice e sereno di viverlo. Il vero problema non risiede nell’avversario dall’altra parte del campo: il vero dilemma non è la sua enorme grinta o la sua velocità di gambe, quanto la tua resistenza mentale. Se vuoi trovare il vero avversario da affrontare e il vero limite da superare non devi fare altro che dare un’occhiata alla tua immagine riflessa nello specchio, perchè solo tu puoi essere il peggior nemico di te stesso.
La mente ti permette di muovere i piedi, di resistere alle provocazioni di un avversario molesto e di lottare fino alla stretta di mano. Questa continua lotta contro te stesso ti porta ad odiare questo sport fino a lanciare la racchetta contro la rete dalla frustrazione, ma, allo stesso tempo, l’amore per questa continua sfida ti impedisce di abbandonare il campo.
Una volta iniziato a giocare la voglia di vincere si impossessa di te e spinge ogni lato negativo del tuo carattere fino al limite estremo.
In effetti, sembriamo tutte persone molto normali e posate… poco prima di mettere piede su quel campo.
Martina Vaggi