Mi ritrovo a leggere le prime pagine de “La Stampa” stamattina, come ogni mattina ho preso l’abitudine a fare da qualche settimana. Sul quotidiano nazionale le prime pagine sono dedicate alla tragedia avvenuta in Spagna in questi giorni. Leggo le prime righe dell’articolo ma poi non riesco a continuare. I giornalisti descrivono le storie di quei giovani, parlano dei loro desideri, delle loro aspirazioni che non potranno più avversarsi: fa troppo male guardare quella foto in prima pagina, dove tutte loro sono in posa con quel sorriso e quella luce piena di speranza, ora eternamente racchiusa nei loro occhi. Mi fa male leggere di quei 23 o 25 anni ormai sprecati, sfioriti, uccisi da un semplice sbaglio umano.
E mentre rifletto sul perchè tutto questo mi entri fin sotto la pelle e mi faccia rabbrividire, mi rendo conto che avevano suppergiù la mia stessa età: sogni e vite diverse, ma tutte accomunate da quella straordinaria voglia di vivere, che ti muove, ti sprona, la stessa che ho anche io. Un sorriso diverso ma identico al mio per quella speranza di credere in un mondo migliore, in un futuro per chi ha potenzialità e voglia di fare. Riconosco in tutte loro quello sguardo allegro, spensierato ma cosciente che sono sicura di avere anche io, e che rivedono nei miei amici e in tutti i giovani che incontro. Credo che di fronte a questi eventi ci si senta coinvolti maggiormente quando ci si riconosce nelle vittime, nei loro sguardi o nelle loro storie.
Sono in metro ora e l’ammasso di persone presenti non mi permette di leggere il giornale come vorrei: così apro il cellulare, e sulla bacheca di Facebook trovo varie notizie di un qualcosa di ancora più spaventoso: si tratta di avvenimenti di cui non vorresti mai leggere perchè sai istintivamente che rappresenterebbero solo il preludio ad infinite catene di altri avvenimenti. Leggo il titolo “Esplosioni all’aeroporto di Bruxelles”, poi mi soffermo sul numero dei morti e quello dei feriti: non sono molti, per fortuna, ma è il termine “esplosioni” quello che mi fa più riflettere. Perché è con questo termine che quel sentimento di paura torna a galoppare dentro di me, si insinua in quel continuo sentore di catastrofe già annunciata non solo con l’espisodio parigino di non molto tempo fa, ma anche con gli episodi che stanno avvenendo in quella parte di mondo che non è solo europeo. E anche qui, rimango colpita, di sasso: mi ritorna in un lampo la paura di entrare in mentro, la paura di sedermi sugli scalini ai piedi del mio amato Duomo di Milano, e, ultima ma non ultima, la paura di non poter affrontare serenamente questo futuro. Un futuro che a noi giovani viene negato già lavorativamente, quando ogni singolo giorno affrontiamo a testa alta i nostri sogni, ma non ne riusciamo mai a trarre un basilare guadagno. Ebbene, con questi eventi, è come se strappassero a brandelli anche un’altra parte di futuro, la più importante: quello che riguarda la vita, la nostra vita, che è la cosa più sacra che possediamo.
E quindi cosa ci resta da fare se non stare a guardare, impotenti, questo tragico susseguirsi di eventi?
Non so dare risposte, in questo momento so solo pormi domande. Lo faccio ogni minuto ormai, mentre cammino, leggo o scrivo, e la domanda è sempre la stessa: riusciremo mai a vedere un futuro sereno?
Martina Vaggi