Riflessioni

La tecnologia e le storie irrisolte: come i social hanno cambiato le relazioni sentimentali

internet e relazioni

Ognuno di noi ha incontrato almeno una volta una persona con cui le cose potevano andare eppure non sono andate. Persone a volte completamente diverse da noi, altre volte invece molto simili, con le quali si percepisce fin da subito un legame inspiegabile, quella scarica di adrenalina al solo pensarle o vederle. A volte sono persone con cui staresti ore a parlare, altre volte persone talmente complicate e smarrite da smarrire te stesso nel cercare di capirle.
Ognuno di noi può annoverare nella propria lista di persone incontrate/frequentate almeno una di queste con cui ha un rapporto in sospeso.
Succede, prima o poi, di cadere nella trappola di un rapporto irrisolto.
E parlo di rapporti irrisolti perché il più delle volte si tratta di rapporti che non sembrano sentimentalmente risolvibili. Rapporti talmente incasinati da aver quasi paura di tramutarli in qualcosa di più, qualcosa di più “normale” e comune, come una storia a lieto fine o una relazione piena di quotidiani interessi e difetti condivisi.
Quando si capita in queste situazioni, la cosa più comune che possa accadere è quella di ritrovarsi immersi in un vortice di pensieri, paranoie, possibili soluzioni tutte catalogabili nella categoria “Cosa sarebbe successo se…?”.
Ma il più delle volte non succede mai nulla.
E quanto tempo passiamo chiedendoci il perché non succede mai nulla.
Alcuni dicono che è per via delle paure: quel groviglio complicato di sensazioni, mescolate all’istinto, che ci dicono che quello che vogliamo fare non rappresenta la cosa giusta, che ce ne pentiremo e che forse è meglio stare soli piuttosto che coltivare altre delusioni. E poi c’è il destino, che in queste situazioni fa un po’ da arma a doppio taglio, perché ti dà la “sicurezza” che le cose andranno come devono andare, che le persone verrano da te magicamente, pur non muovendo un dito per andarsele a prendere.
E poi… vale la solita regola del “Se non ti cerca, non gli piaci abbastanza”.
Per come la penso, potrebbero essere vere tutte queste opzioni, oppure nessuna di queste. Il fatto è che l’essere umano è diventato qualcosa di così complicato da capire, che credo che anche il signor Freud oggi avrebbe qualche difficoltà nel provarci.
Vi è mai successo di sedervi ad un tavolo circondata da persone che navigano sul 50esimo anno di età (o giù di lì) e di ascoltare, affascinate, quelle belle storie sul come lui ha conquistato lei, le ha portato dei fiori, ha avuto pazienza di apettare anche fino al quinto appuntamento per baciarla e tutte queste belle cosette qui?
Ecco, questi racconti sui bei tempi andati purtroppo non ci rispecchiano più. Non rispecchiano più quest’epoca in cui ci troviamo a vivere, altrimenti come si spiegherebbero tutti i discorsi maschili che sentiamo (“Non ci sono più ragazze con i valori, che vogliano sposarsi, stirare le camice” ecc) e tutti i discorsi femminili invece (“Sono tutti uguali, vogliono la ragazza seria e poi si fanno mettere sotto da quella che non la è”).
Ecco. Un disastro su tutta la linea praticamente.
Il fatto è che la società è cambiata e molto velocemente anche. I mezzi di comunicazione si sono evoluti in maniera così rapida da non darci neanche il tempo di adattarci. Per come la vedo io, le persone di oggi (noi), ci stiamo ancora adattando alla triste realtà che vediamo: le donne cercano di adattarsi al fatto di trovare con difficoltà qualcuno che faccia il primo passo (e lo faccia come si deve) e che sappia restare in una relazione a due senza cercare le soluzioni ai problemi tra le gambe di qualcun’altra. Gli uomini, invece, probabilmente stanno cercando di adattarsi al fatto di non essere più ormai in grado di fare gli uomini. Di alzare il telefono per chiamare, invece di scrivere un messaggio. Di citofonare invece di messaggiare. Di baciare, invece di lasciare dei like sulle foto profilo di Facebook.
E non è che sia solo colpa loro, per intenderci. Anche noi donne abbiamo le nostre colpe. Tanto per dirne una, le abbiamo nel momento in cui non rispettiamo noi stesse nella fretta di dare, assecondare, più che di ricevere, e mostrare (nel vero senso fisico della parola) solo per paura che la persona che abbiamo davanti semplicemente… svanisca.
Le abbiamo nel momento in cui non ci rendiamo conto che il rispetto per se stesse è la prima cosa: senza quello risulta difficile rispettare qualcun altro.
Quello che è innegabile, però è che Internet ha creato un’altra realtà, dandoci la possibilità di creare profili a nostra immagine e somiglianza, con il risultato che ognuno mostra solo ciò che vuole di se stesso: e quei profili non sono noi, ma qualcuno a volte completamente diverso da noi.
Quei profili sono diventati chi vorremmo essere noi.
Mentre noi, la parte più vera di noi, è rimasta dietro lo schermo, in disparte. A guardare.
E ad avere paura. Una tremenda paura.
La paura non di scrivere ma di chiamare. La paura non di nascondersi dietro un telefonino, ma di saltare in macchina e affrontare faccia a faccia la persona con cui vogliamo veramente chiarire.
Abbiamo paura nel momento in cui prendiamo coscienza di ciò che siamo diventati davvero. E allora capiamo che il “mi piace” alla foto profilo non ci basta più. Che le conversazioni via messaggio sono qualcosa di veramente asettico e freddo se non proseguono in gesti, sguardi, calore: al loro posto, infatti, preferiremmo una bella chiaccherata davanti ad un caffè.
Abbiamo paura quando ci rendiamo conto che questa realtà è andata troppo avanti, troppo oltre. E noi siamo rimasti indietro, a guardare con nostalgia a quei tempi passati in cui alle ragazze si regalavano ancora fiori per conquistarle e quelle ragazze non usavano i filtri Instagram per attirare e ingannare ma la mente, il sorriso, la semplicità di un viso acqua e sapone.
E in questo panorama già abbastanza triste si inseriscono le nostre storie irrisolte. E a vedere tutto l’insieme, è anche piuttosto facile rendersi conto del perché nascano storie che non hanno nè una durata, nè uno svolgimento, nè una fine.
Il problema vero però rimane: ogni persona ha voglia di circondarsi di sentimenti ed emozioni che la facciano sentire viva.
E come facciamo a dare quand’è più facile dare la colpa alla paura, o al destino, o a una miriade di stronzate che non sappiamo neanche più come inventarle?
Ma soprattutto: di tutto quell’amore che abbiamo e che continuiamo a non donare, cosa pensiamo di farne?

Martina Vaggi

Photo credit: https://www.zerochan.net
Riflessioni

La paura che paralizza, la paura che ti spinge a muoverti

paura

Viviamo tutti dei giorni bui, dei momenti del nostro passato dei quali non andiamo fieri. Dei periodi della nostra vita in cui abbiamo smarrito noi stessi e ci siamo persi per poi non riconoscerci più. Questo forse è portato dall’instabilità della vita o, piuttosto, dal fatto che siamo noi i primi ad essere un po’ instabili.
Eppure
a volte non c’è un perché o un motivo scatenante di quella situazione. A volte non c’è nulla che non quadra eppure neanche nulla che sia al posto giusto.
Per me, che ai tempi avevo solo 23 anni, nulla sembrava essere fuori posto: avevo solo un’università da finire e nessuna responsabilità al mondo se non questa. Ero circondata – sono sempre stata circondata – da persone stupende: dei genitori incredibili che non mi avevano mai fatto pressione sul fatto che io ancora non lavorassi e non mi mantenessi da sola. Delle amiche di cui mi sono circondata e poi c’era lo sport che a me ha sempre dato tanto. Ho sempre avuto tanto dalla vita – anche più di quanto meritassi – eppure in quel momento questo è diventato un problema per me. Il fatto che, amicizie e rapporti sociali a parte, io non mi fossi mai guadagnata nulla di ciò che avevo. Era sempre stato tutto gratis, tutto facile, troppo facile per una come me che la vita ama complicarsela. Mi sentivo in colpa per un’università che non pagavo io e che ritardavo a concludere. Mi sentivo inutile per un lavoro che non svolgevo e anche ancora non cercavo. Non avevo più obbiettivi: le lezioni all’università le avevo concluse, mi mancavano solo gli ultimi esami e passavo ormai tutto il mio tempo a casa cercando di finirli e, a volte, non provandoci nemmeno.
Stare sempre a casa si può rivelare molto pericoloso, almeno per me. Perché mi portava a pensare a tutto ciò che andava male e a fantasticare ad una vita che non avevo e che volevo. Mi ha portato ad impigrirmi, a svegliarmi sempre più tardi la mattina, a non avere ritmi, quei ritmi che, mi sono resa conto solo una volta che ho iniziato a lavorare, per me sono tutto perché scandiscono il mio tempo e la mia giornata in regole ferree da seguire. Ho sempre avuto bisogno di regole anche se in fondo non le ho mai tollerate granché,
in un tipico dualismo che mi caratterizza e che rispecchia la mia vita, in fondo.
Se ripenso a quel periodo penso a quanto una persona sia in grado di fingere, persino una come me che tende sempre a dire ciò che pensa, anche a suo discapito.
Eppure uscivo, ero allegra, non dicevo mai di no per una cena o per una serata. Ma tutto questo non alleviava l’inutilità che sentivo, anzi, la peggiorava. Da fuori apparivo sicura, sorridevo ma dentro mi sentivo inutile.
Mi sentivo un fallimento e non tanto per le aspettative che altri potevano avere su di me, quanto per le aspettative che io mi ero posta su me stessa. Ero ad un bivio: sapevo in fondo quale strada dovevo prendere – qual era quella giusta – ma non riuscivo a muovermi. Ero paralizzata da ciò che volevo e che non riuscivo ad ottenere. Troppo consapevole di avere tutto ma di non essermi mai guadagnata niente, troppo frustrata della mia vita da prendermela magari con le persone che avevo vicino. Se instauravo rapporti con un ragazzo il rapporto finiva sempre male e io tiravo fuori il peggio di me per poi pentirmene un minuto dopo. Ripensandoci ora, credo che in quel periodo davo il peggio di me perché era l’unica cosa che potevo realmente dare. Non avevo più riserve di autostima. Non credevo in me, ero diventata un’insicura cronica, una di quelle persone che non riescono a muovere il culo per raggiungere i loro obbiettivi perché, di base, non l’hanno mai dovuto fare in vita loro.
Ma se non riesci a tirarti fuori dai tuoi stessi problemi tu, come pensi che qualcun altro ti salvi dal tuo abisso?”, questo continuavo a pensare.
Guardavo la vita degli altri andare avanti: le mie amiche laurearsi, iniziare a trovare un lavoro mentre io mi sentivo ferma al punto di partenza.
Le sentivo parlare di ore di lavoro, riposi, sacrifici, seppur piccoli o grandi, e pensavo: “Non vedo l’ora di affrontare anche io tutto questo”.
Eppure non riuscivo a muovermi.
Ripensandoci ora, forse era molto più comodo – è sempre più comodo – inscenare la parte della vittima che non riesce ottenere ciò che vuole, piuttosto che darsi da fare e iniziare a costruire, passo dopo passo, la strada sulla quale vuoi camminare.
E’ assurdo, me lo dicevo anche all’epoca: avere tutto e sentire di non avere niente. Perché quello che più mi mancava, e che, mi resi conto dopo, non dovrebbe mancare
mai, era la fiducia in me stessa. La grinta di non buttarsi giù, la pazienza nell’accettare che si può anche cadere nella vita ma ci si deve sempre rialzare da soli.
In quel periodo non scrivevo più. Non leggevo più. Non facevo più tutte quelle cose che mi hanno sempre fatto stare bene. Non so dare una definizione di quello che quel momento è stato per me. Non so dire se era depressione o svogliatezza o forse entrambe. Sono sempre stata allergica alle definizioni perché prima di vedere qualcuno come un paziente da curare preferisco vederlo per quello che realmente è: una persona con alti e bassi, con sbavature e linee dritte e ben definite. Una persona che sbaglia, volta pagina e ricomincia.
Così ho fatto io. E’ saltato fuori che il vero limite non sempre te lo impone la vita. Nel mio caso il limite me lo sono sempre imposto io. E’ venuto fuori che non erano certo quei due esami che mi mancavano alla laurea il problema:
di quelli me ne sono sbarazzata e il giorno in cui mi sono laureata ricordo di aver pensato: “Ah, ma era davvero così facile?”.
E poi da lì ho ricominciato. Mi sono buttata in lavori che volevo fare per scoprire se davvero facevano per me e in altri che mai avrei pensato di fare e nei quali sono partita completamente da zero.
E oggi quel periodo mi serve per pensare a quanto lavoro facciamo su noi stessi senza neanche accorgercene. A quanto i risultati di quel lavoro si vedano dopo tanto, troppo tempo: così tanto che una persona cambia e si trasforma senza neanche rendersene conto.
Non credo di aver mai detto a nessuno di quel mio periodo
che ora guardo a mente lucida e do in pasto alla carta perché è l’unica cosa che davvero so fare e della quale non me ne libererò mai. Era nascosto in me, come un’infinità di varie cose, parole, imperfezioni.
Esistono in fondo periodi negativi per tutti e cause scatenanti per ognuno di essi. Per me la causa scatenante è stata la paura: paura di non essere all’altezza delle mie aspettative. Ma la stessa paura che ieri mi ha paralizzato e bloccato dal fare qualsiasi cosa oggi, invece, mi accende e mi porta a buttarmi nelle cose e a viverle più che posso.
All’epoca non sapevo ancora quali fossero i veri problemi. Non conoscevo ancora le responsabilità, non avevo
ancora visto da vicino una malattia feroce, che ti costringe a vivere con l’ansia e la paura (la vera paura) di vedere un tuo amico o un tuo famigliare strappato dalla quotidianità, dalla routine, dalle piccole cose a cui rimaniamo aggrappati ogni giorno e che spesso diamo per scontate.
E ho capito, con il tempo che, forse, il segreto del vivere serenamente non è l’avere la fortuna di vivere una vita facile o la sfortuna di trovarsi a convivere con un dramma dopo l’altro, perché purtroppo di alti e bassi è fatta la vita di tutti noi. Forse la soluzione è cercare, trovare, e costruire continuamente un nostro equilibrio che ci permetta di vivere con leggerezza i periodi belli, e accusare il colpo nei periodi bui.
Senza farsi mai troppe domande su quello che accadrà.

Martina Vaggi
Photo credit: http://www.deabyday.tv/salute-e-benessere/mente-e-psiche/guide/1789/Come-superare-la-paura-del-giudizio-altrui.html