Riflessioni

Non immaginare qualcosa che non c’è ma apprezza quello che hai

 

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E’ difficile a volte capire come funziona una mente. Cosa la affascina, cosa la colpisce, cosa ne fa scattare l’interruttore “curiosità”.
E’ ancora più difficile capire come funziona un cuore. Quali sono le parole che lo fanno sentire protetto e al sicuro e quali i gesti che lo fanno correre a ritmo più incalzante.
In una realtà come la nostra, oggi, dove ci muoviamo a ritmo disumano per raggiungere obbiettivi irraggiungibili, dove le persone sembrano aver dimenticato cosa significhi fermarsi un attimo a godere la vista di un paesaggio – o di una persona – ci approcciamo all’altro sesso sempre con un po’ più di paura e di indecisione.
Il problema è che, sempre più di frequente, vediamo negli occhi dell’altro riflesse le nostre stesse paure, se non di più, e trasformiamo quella persona in un caso clinico da curare (noi donne, in questo, siamo diventate talmente brave da renderla una disciplina olimpionica) e diamo al nostro obbiettivo impossibile da raggiungere quel nome e cognome. Così la nostra realtà diventa “quello sguardo che ci ha lanciato che voleva dire di più” o quella notte che non scorderemo tanto facilmente, o quel rapporto iniziato ma mai portato avanti.
E senza neanche accorgercene trasformiamo la conoscenza in una gara di conquista dove la persona davanti a noi diventa un premio.
Forse sul momento non ce ne accorgiamo, ma una volta che ce ne rendiamo conto, una volta che vediamo scritte queste parole che delineano il nostro comportamento, quanto risulta sbagliato tutto questo?
Quanto sacrifichiamo di noi stessi solo per una ricerca di attenzione che altro non è se non un contentino dato con sufficienza?
In tutti questi anni di rapporti mancati, riusciti e poi finiti, mai iniziati o interrotti bruscamente con l’altro sesso, mi sono sempre un po’ stupita di notare come una delle costanti presente in tutti questi casi (vissuti in prima persona o indirettamente) sia sempre stata la trasformazione della realtà così com’è, in una realtà che solo noi percepiamo e vediamo così come siamo.
Ognuno di noi vede la realtà che vuol vedere. A volte distorce perfino la realtà che ha davanti solo per trasformarla in qualcosa che non c’è.
Ma così come mentre corriamo verso l’obbiettivo non riusciamo quasi mai a fermarci per chiederci per cosa – o per chi – davvero stiamo correndo, allo stesso modo non riusciamo a dare un freno a questo comportamento fino a quando non ci rendiamo conto di quanto triste esso sia.
Fino a quando non riesci, un giorno, a trovare la pace nella tua solitudine.
L’armonia nel tuo disordine. La tranquillità nei tuoi orari, nei tuoi impegni quotidiani che non hanno quel nome e cognome che vorresti, ma solo il tuo.
Solo il nome e cognome che porti e che rappresenta la tua vita.
Perché se fantasticare sul momento può essere bello, lo è ancora di più rendersi conto che non ne hai bisogno. Perché la realtà che ognuno di noi vuole vedere alla fine è quella che più ci fa star male.
Non abbiamo bisogno di scuse, ma, semmai, di concretezza. Di messaggi che arrivano decisi, di gesti trasparenti, di serate passate a parlare davanti ad un camino accesso, o davanti ad un caffè. Non abbiamo bisogno di immaginarci qualcosa che non c’è, ma di goderci quello che già abbiamo.
Non vogliamo più comportamenti ambigui, quelli già li abbiamo sperimentati e abbiamo capito a nostre spese che creano solo problemi: abbiamo bisogno della verità, anche se a volte può essere crudele.
Nessuno di noi deve correre dietro ad un treno che non si fermerà mai per noi.
D’altronde, le persone non sono treni: sono semplicemente persone. Che si tengono per mano quando vogliono affetto, si guardano quando vogliono cercarsi e si aspettano a vicenda quando hanno davanti l’unica persona che vogliono davvero.

Martina Vaggi

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