Il diario del silenzio

“Il diario del silenzio”: scrivere e pubblicare un libro di testimonianze

Che cosa provi mentre stai correndo una maratona? Mentre vedi il traguardo ancora troppo lontano da raggiungere e le gambe iniziano a farti male?

Non puoi dirlo in quel momento.
In quel momento la tua mente deve essere sgombra di pensieri, per permetterti di correre liberamente, senza condizioni. Quello che provi, o che hai provato in quegli istanti di fatica e sudore, lo capirai e sarai in grado di raccontarlo solo più avanti. A mente lucida.

È la stessa cosa che succede quando stai scrivendo un libro.
La stessa cosa accadde a me quando scrissi “Il diario del silenzio – Storie reali di quarantena“.

Il diario del silenzio

Scrivere un libro: l’importanza di fare delle liste

Nel luglio 2020 è nata in me questa consapevolezza.
Era da più di un mese terminato il primo lockdown che tutti avevamo vissuto con gli stessi sentimenti: sgomento, dolore, rabbia, incredulità.

Perché non mettere quei sentimenti su carta?
Perché non lasciare un segno di ciò che avevamo vissuto e provato, affinché altri, nel futuro, potessero leggerli e immedesimarsi in noi?

Ho iniziato il tutto in maniera innocente.
Prima ho pensato a cosa volevo esattamente esprimere.
Che cosa avrei voluto rappresentare con “Il diario del silenzio“?

Volevo ascoltare varie persone e le loro storie riferite a quel folle lasso di tempo che aveva lasciato cicatrici indelebili su ognuno di noi.

Cominciai facendo una lista.
Tutto partì con un foglio di carta dove io appuntai tre riferimenti:

Il diario del silenzio

Volevo raccontare storie.
Dovevo contattare persone disponibili a raccontarmele.
Il tutto, nel più breve tempo possibile.

Il lockdown era terminato da poco e io non avevo la minima idea che potesse ripresentarsi un’emergenza sanitaria di lì a pochi mesi.
Credevo di dover fare tutto alla svelta, altrimenti l’argomento non sarebbe più stato molto attuale, dopo.

Così, partì la mia ricerca.
La ricerca di date, avvenimenti, di persone e aziende che potessero darmi una mano nel realizzare “Il diario del silenzio“.

Nonostante i miei dubbi, trovai molte persone disposte a raccontarmi di loro.
E quel foglio dove io mi ero appuntata quei primi tre riferimenti, ben presto divenne una vera e propria lista.

Una lista di persone da intervistare.

Il diario del silenzio


All’inizio tutto partì così.
Ma… ben presto, dopo le prime interviste, mi resi conto di una cosa.

“Il diario del silenzio”: l’ascolto attivo delle testimonianze

Quelle persone non erano cavie.
Erano testimonianze di un periodo storico mai vissuto prima.
E io non dovevo intervistarle.
Dovevo ascoltarle.
Immedesimami in loro, in tutte quelle parole
che sgorgavano senza un freno.
In tutti quei sentimenti che trapelavano da ogni
movimento inconscio delle mani, del loro sguardo.

La prima persona che ascoltai fu un paziente della Toscana, che era stato ricoverato in terapia intensiva per due settimane.
Io non lo conoscevo, non l’avevo mai visto prima.
Era stato un mio amico a darmi il suo contatto.
Mi parlò al telefono per due ore e mezza.

Credo di non aver mai ascoltato per così tanto tempo e con così tanta attenzione una persona in tutta la mia vita.

Il flusso di parole era così impetuoso e continuo, che quasi mi dispiaceva interromperlo con le mie domande.

Il diario del silenzio

Ogni volta che ascoltavo una testimonianza
cercavo di non interromperla perché non
volevo rovinare quel flusso di emozioni.
Il problema era che avevo bisogno di un
quadro cronologico chiaro e quindi di date,
di periodi, per poter poi incanalare tutto questo
in una sorta di “diario”, dove ogni racconto
avrebbe avuto la sua data in cui poter circoscrivere la sua storia.

La cosa strana era che avevo sempre pensato di non essere all’altezza di fare nulla nella mia vita.

E invece… ho scritto “Il diario del silenzio“. Chi l’avrebbe mai pensato?
Non io.

Non io, che ho sempre pensato che non avrei mai potuto scrivere un libro, nonostante avessi scritto praticamente da sempre: sui giornali, su testate digitali, sul mio blog.
Come posso io rendere appieno un’esperienza vissuta da un’altra persona?
Questo mi chiedevo, continuamente.
Eppure, man mano che andavo avanti in questo percorso, capii una cosa.

Il diario del silenzio

L’ascolto è la chiave.

Se vuoi davvero conoscere la storia di una persona, devi ascoltarla.

E non mi riferisco a quell’ascolto di cui facciamo uso tutti, tutti i giorni: concedere all’altra persona di parlare solo per poter dare noi una risposta.
Quello non è ascoltare.
È attendere il proprio turno, esattamente come facciamo ogni volta che siamo in coda per salire sul treno.

Il vero ascolto è quello attivo.
Quello che prescinde da ogni giudizio.
Questo è l’ascolto che ti permette di entrare nella vita delle persone e di cogliere sfumature in loro che neanche loro sanno di avere.
Questo è l’ascolto che esercitai per poter immedesimarmi nelle storie di quelle persone e scrivere il libro.
Questo mi portò un arricchimento personale impagabile.

Il flusso di coscienza dello scrittore

Dopo neanche un mese dall’inizio della prima stesura di “Il diario del silenzio“, ero entrata in una sorta di limbo.
Stavo sperimentando quello che gli psicologi chiamano “Flow“, cioè “Flusso”.
Ovvero: uno stato di coscienza dove la persona è completamente coinvolta nell’attività che sta svolgendo.

Il diario del silenzio

Ricordo che la mia vita andava avanti come se niente fosse, ma io ne ero quasi estranea.
In quei momenti pensavo:

Ogni volta che cammino per la strada,
ogni volta che vado a lavoro,
ogni volta che mi addormento alla sera,
sto pensando al libro: a chi ascoltare,
a chi coinvolgere, a come fare per farlo crescere.

Il fatto è che la mia vita, in quel momento, era un vero casino.
Da anni non avevo grandi soddisfazioni personali o lavorative a cui attingere.
In più, il mio fidanzato aveva ricevuto una promozione, si era trasferito al sud e noi ci eravamo lasciati.
Stavo soffrendo.

E per la prima volta ci riuscii: riuscì ad usare la sofferenza per fare qualcosa di produttivo.

Anche da quella sofferenza nacque “Il diario del silenzio“.
Questo mi fece prendere consapevolezza di una cosa.

I percorsi si fanno con i “nonostante.
Non con i “se” e con i “ma”.
Con quelli non si va da nessuna parte.

Un percorso si fa nonostante tu stia male.
Nonostante tu sia delusa.
Nonostante in te alberghi sofferenza.
Perché puoi comunque trovare la strada per vedere la gioia.
Che è ovunque il nostro occhio sia disposto a scovarla.

Scrivere un libro: cosa fare dopo che la prima stesura è terminata

Nello scrivere “Il diario del silenzio“, una volta che la prima stesura fu terminata, si chiuse una porta e se ne aprirono altre mille.
Come devo procedere ora?“, mi chiesi, in quel momento.
Una lista. Dovevo fare un’altra lista.

Il diario del silenzio

Il 22 ottobre 2020 fu la prima volta che vidi il mio libro online.
Come titolo scelsi, appunto, “Il diario del silenzio“.
Il sottotitolo fu “Storie reali di quarantena“.

All’inizio, quando guardai il mio libro per la prima volta,
io vidi solo il mio nome.
Credo che capiti a tutti, soprattutto se è il primo libro.

Solo dopo alcune settimane dalla pubblicazione iniziarono ad accadere delle cose.
Il diario del silenzio” si stava diffondendo, soprattutto a livello locale.
Trattando di storie reali e, di racconti dov’era presente molta sofferenza, si presentarono alla mia porta alcune situazioni.

Una signora del paese fermò mia mamma al supermercato per farle i complimenti.
Le disse: “Ho letto il libro di sua figlia“, poi scoppiò a piangere.
E mia mamma, con lei.
Il tutto davanti al banco dei salumi.

Alcune persone che avevo ascoltato iniziarono a portare il libro a lavoro, nei reparti dell’ospedale e a parlarne.
Un passante del mio paese, un giorno, mi fermò per strada e mi disse: “Sai che quando ho letto ‘Il diario del zilenzio‘ ho pianto per una notte intera?“.

La mamma di una mia coscritta mi mandò a casa dei fiori: avevo deciso di inserire sua figlia, deceduta giovane in un incidente, in un racconto del libro. L’avevo descritta esattamente come era da viva: una bella ragazza solare, con una straordinaria voglia di vivere.

Ho pensato che anche se una persona non può più vivere su questa terra, può comunque vivere per sempre in un racconto.

La scrittura, serve a questo. A lasciare una traccia.

Il giorno in cui mi arrivarono a casa quei fiori, trovai anche un biglietto, scritto dalla mamma della mia coscritta.
Quel giorno ho pianto senza riuscire a fermarmi.

Succedevano cose molto belle, in continuazione.
Ma tutte queste cose non riguardavano me.

Non ero io il centro di quel turbine.
Erano le altre persone.

E in quel momento mi sono resa conto che non era il mio nome la cosa più importante di “Il diario del silenzio“.
Erano tutte le altre persone al quale il libro era legato.

Da quel momento in poi, smisi di focalizzarmi sul mio nome in copertina.

“Il diario del silenzio”: cosa fare dopo averlo pubblicato

Divenne una priorità per me fare in modo che le persone parlassero del libro.
Ma in che modo dovevo muovermi?

Il diario del silenzio


In qualche modo, fare quelle liste mi aiutava ad organizzare la giornata.
Riuscivo sempre a portare a termine ciò che mi ero scritta e ad ottenere anche dei buoni risultati.

Nel giro di due mesi avevo venduto circa cinquecento copie, tra eBook e print on demand.
Avevo ottenuto un buon numero di recensioni, tutte positive.
Dopo tre mesi, “Il diario del silenzio” era primo nella classifica IBS.it degli eBook più regalati dell’anno.

Forse per alcuni sembrerà poco. Per altri, sembrerà tanto.
Per me non era né tanto né poco: erano semplicemente obbiettivi che mi ero prefissata di raggiungere.
Mi limito a riportare quanto è successo e quanto ho ottenuto, sapendo di averci messo tutta me stessa.

Poco dopo che “Il diario del silenzio” venne pubblicato, mia mamma mi disse: “Sei fortunata che hai trovato persone che ti fanno pubblicità, che ti organizzano presentazioni, che ci tengono a parlare del libro.
Ma io sapevo che la fortuna, in realtà, non c’entrava molto.

Quando lavori su un tuo progetto, quando sei tu a cercare i contatti, a creare legami,
a fare in modo che le persone credano in quello che stai facendo anche più
di quanto ci creda tu, non è fortuna.
Semplicemente avevi chiaro un obbiettivo: ci hai lavorato su e hai ottenuto dei risultati.
Fine.

Nel processo di scrittura e pubblicazione di un libro, tutti pensano che scriverlo sia la fase più difficile.
Le persone credono che sia quello il vero e duro lavoro e, in effetti, prima di pubblicare “Il diario del silenzio” anche io la pensavo così.
Scrivere in effetti non è semplice.
Assemblare tutti i pensieri fino a dar loro la forma di un libro, lo è ancora meno.

La verità è che, quando il libro venne pubblicato, io ebbi in qualche modo la percezione che il duro lavoro iniziasse in quel momento.
E, effettivamente, questo fu ciò che avvenne.

Il diario del silenzio

“Il diario del silenzio”: i book blogger, i contatti, le recensioni

Dopo la pubblicazione de “Il diario del silenzio“, non avendo io una casa editrice alle spalle, mi sono organizzata io.
Quello è il momento in cui ho cercato i contatti con persone disposte a parlare del tuo libro sui loro blog, sui giornali: ricerchi interviste, recensioni.
Crei tu stesso dei contatti che poi mantieni.
In che modo?

Con la gentilezza. Con la consapevolezza che niente ci è dovuto da nessuno.
E con l’uso di due semplici parole, delle quali a volte scordiamo l’esistenza: per favore e grazie.
Ma in tutto questo c’era anche qualcos’altro.
In qualche modo, l’aver pubblicato un libro fece maturare in me una consapevolezza.

Io non ero nessuno.
E il fatto di aver pubblicato un libro
con il mio nome sopra non faceva di me qualcuno.

In Italia, ogni giorno, vengono pubblicati circa duecento libri.

Ogni giorno. Duecento libri. “Il diario del silenzio” era solo uno di questi.
Quindi… per come la vedo io, siamo tutti dei “nessuno”.
Tutti noi siamo dei nessuno per il mondo, o per le altre persone.

Dunque… dov’ero rimasta?
Ah si, giusto: mantenere dei contatti.
Il passo successivo, almeno per me, fu quello di cercare concorsi letterari e fiere online a cui iscrivere “Il diario del silenzio“.

Creare anche un booktrailer. Anche solo per mettermi alla prova.
E poi… guardare al futuro.
Avendo sempre in mente un obbiettivo.
Il che mi riporta a quest’ultima lista che ho fatto un mese fa:

Il diario del silenzio

… Su questi ultimi due punti ci sto ancora lavorando.

Martina Vaggi

Photo credit immagine in evidenza: “Il diario del silenzio” di http://booklovers105.blogspot.com/2020/12/recensione-il-diario-del-silenzio.html

Altre immagini: Pixabay e Canva e “Il diario del silenzio” di Martina Vaggi.




Il diario del silenzio

Scrivere e pubblicare un libro di testimonianze: l’ascolto attivo e l’importanza di fare delle liste

Che cosa provi mentre stai correndo una maratona? Mentre vedi il traguardo ancora troppo lontano da raggiungere e le gambe iniziano a farti male?
Non puoi dirlo in quel momento.
In quel momento la tua mente deve essere sgombra di pensieri, per permetterti di correre liberamente, senza condizioni. Quello che provi, o che hai provato in quegli istanti di fatica e sudore, lo capirai e sarai in grado di raccontarlo solo più avanti. A mente lucida.
È la stessa cosa che succede quando stai scrivendo un libro.

Apri Word e vedi quella pagina bianca davanti a te.
E senti in te quel bisogno, quella necessità di riempirla.
Sai che devi farlo.

Nel luglio 2020 è nata in me questa consapevolezza.
Era da più di un mese terminato il primo lockdown che tutti avevamo vissuto con gli stessi sentimenti: sgomento, dolore, rabbia, incredulità.
Perché non mettere quei sentimenti su carta? Perché non lasciare un segno di ciò che avevamo vissuto e provato, affinché altri, nel futuro, potessero leggerli e immedesimarsi in noi?

Ho iniziato il tutto in maniera innocente.
Prima ho pensato a cosa volevo esattamente esprimere: volevo ascoltare varie persone e le loro storie riferite a quel folle lasso di tempo che aveva lasciato cicatrici indelebili su ognuno di noi.
Cominciai facendo una lista.
Tutto partì con un foglio di carta dove io appuntai tre riferimenti:

Volevo raccontare storie.
Dovevo contattare persone disponibili a raccontarmele.
Il tutto, nel più breve tempo possibile.

Il lockdown era terminato da poco e io non avevo la minima idea che potesse ripresentarsi un’emergenza sanitaria di lì a pochi mesi.
Credevo di dover fare tutto alla svelta, altrimenti l’argomento non sarebbe più stato molto attuale, dopo.

Così, partì la mia ricerca.
La ricerca di date, avvenimenti, di persone e aziende che potessero darmi una mano nel realizzare il mio progetto.

Nonostante i miei dubbi, trovai molte persone disposte a raccontarmi di loro.
E quel foglio dove io mi ero appuntata quei primi tre riferimenti, ben presto divenne una vera e propria lista.
Una lista di persone da intervistare.


All’inizio tutto partì così.
Ma… ben presto, dopo le prime interviste, mi resi conto di una cosa.

Quelle persone non erano cavie.
Erano testimonianze di un periodo storico mai vissuto prima.
E io non dovevo intervistarle.
Dovevo ascoltarle.
Immedesimami in loro, in tutte quelle parole che sgorgavano senza un freno.

In tutti quei sentimenti che trapelavano da ogni movimento inconscio delle mani, del loro sguardo.

La prima persona che ascoltai fu un paziente della Toscana, che era stato ricoverato in terapia intensiva per due settimane.
Io non lo conoscevo, non l’avevo mai visto prima.
Era stato un mio amico a darmi il suo contatto.
Mi parlò al telefono per due ore e mezza.
Credo di non aver mai ascoltato per così tanto tempo e con così tanta attenzione una persona in tutta la mia vita.
Il flusso di parole era così impetuoso e continuo, che quasi mi dispiaceva interromperlo con le mie domande.

Ogni volta che ascoltavo una testimonianza cercavo di non interromperla perché non volevo rovinare quel flusso di emozioni.
Il problema era che avevo bisogno di un quadro cronologico chiaro e quindi di date, di periodi, per poter poi incanalare tutto questo in una sorta di “diario”, dove ogni racconto avrebbe avuto la sua data in cui poter circoscrivere la sua storia.

La cosa strana era che avevo sempre pensato di non essere all’altezza di fare nulla nella mia vita.
Ho sempre pensato che non avrei mai potuto scrivere un libro, nonostante avessi scritto praticamente da sempre: sui giornali, su testate digitali, sul mio blog.
Come posso io rendere appieno un’esperienza vissuta da un’altra persona?
Questo mi chiedevo, continuamente.
Eppure, man mano che andavo avanti in questo percorso, capii una cosa.

L’ascolto è la chiave.
Se vuoi davvero conoscere la storia di una persona, devi ascoltarla.
E non mi riferisco a quell’ascolto di cui facciamo uso tutti, tutti i giorni: concedere all’altra persona di parlare solo per poter dare noi una risposta.
Quello non è ascoltare.
È attendere il proprio turno, esattamente come facciamo ogni volta che siamo in coda per salire sul treno.

Il vero ascolto è quello attivo.
Quello che prescinde da ogni giudizio.
Questo è l’ascolto che ti permette di entrare nella vita delle persone e di cogliere sfumature in loro che neanche loro sanno di avere.
Questo è l’ascolto che esercitai per poter immedesimarmi nelle storie di quelle persone e scrivere il libro.

Questo mi portò un arricchimento personale impagabile.

Dopo neanche un mese dall’inizio del mio percorso, ero entrata in una sorta di limbo.
Stavo sperimentando quello che gli psicologi chiamano “Flow“, cioè “Flusso”.
Ovvero: uno stato di coscienza dove la persona è completamente coinvolta nell’attività che sta svolgendo.

Ricordo che la mia vita andava avanti come se niente fosse, ma io ne ero quasi estranea.
In quei momenti pensavo: “Ogni volta che cammino per la strada, ogni volta che vado a lavoro, ogni volta che mi addormento alla sera, sto pensando al libro: a chi ascoltare, a chi coinvolgere, a come fare per farlo crescere.

Il fatto è che la mia vita, in quel momento, era un vero casino.
Da anni non avevo grandi soddisfazioni personali a cui attingere.
In più, il mio fidanzato aveva ricevuto una promozione, si era trasferito al sud e noi ci eravamo lasciati.
Stavo soffrendo.
E per la prima volta riuscii a usare quella sofferenza per fare qualcosa di produttivo.

I percorsi si fanno con i “nonostante.
Non con i “se” e con i “ma”.
Con quelli non si va da nessuna parte.
Un percorso si fa nonostante tu stia male.
Nonostante tu sia delusa
.
Nonostante in te alberghi sofferenza.

Perché puoi comunque trovare la strada per vedere la gioia.
Che è ovunque il nostro occhio sia disposto a scovarla.

Nello scrivere un libro, una volta che la prima stesura è terminata, si chiude una porta e se ne aprono mille.
Come devo procedere ora?“, mi chiesi.
Una lista. Dovevo fare un’altra lista.

Il 22 ottobre 2020 fu la prima volta che vidi il mio libro online.
Come titolo scelsi “Il diario del silenzio“.
Il sottotitolo fu “Storie reali di quarantena“.
All’inizio, quando lo guardai per la prima volta, io vidi solo il mio nome.
Credo che capiti a tutti, soprattutto alla prima pubblicazione.

Solo dopo alcune settimane dalla pubblicazione iniziarono ad accadere delle cose.
Il libro si stava diffondendo, soprattutto a livello locale.
Trattando di storie reali e, perlopiù, di storie dov’era presente molta sofferenza, si presentarono alla mia porta alcune situazioni.

Una signora del paese fermò mia mamma al supermercato per farle i complimenti.
Le disse: “Ho letto il libro di sua figlia”, poi scoppiò a piangere. E mia mamma, con lei.
Il tutto davanti al banco dei salumi.
Alcune persone che avevo ascoltato iniziarono a portare il libro a lavoro, nei reparti dell’ospedale e a parlarne.
Un passante del mio paese, un giorno, mi fermò per strada e e mi disse: “Sai che quando l’ho letto ho pianto per una notte intera?”.
La mamma di una mia coscritta mi mandò a casa dei fiori: avevo deciso di inserire sua figlia, deceduta giovane in un incidente, in un racconto del libro. L’avevo descritta esattamente come era da viva: una bella ragazza solare, con una straordinaria voglia di vivere.
Ho pensato che anche se una persona non può più vivere su questa terra, può comunque vivere per sempre in un racconto.
D’altronde, la scrittura, serve a questo. A lasciare una traccia.
Il giorno in cui mi arrivarono a casa quei fiori, trovai anche un biglietto, scritto dalla mamma della mia coscritta.
Quel giorno ho pianto senza riuscire a fermarmi.

Succedevano cose molto belle, in continuazione.
Ma tutte queste cose non riguardavano me.

Non ero io il centro di quel turbine.
Erano le altre persone.
E in quel momento mi sono resa conto che non era il mio nome la cosa più importante di quel libro.
Erano tutte le altre persone al quale era legato.
Da quel momento in poi, smisi di focalizzarmi sul mio nome in copertina
.

Divenne una priorità per me fare in modo che le persone parlassero del libro.
Ma in che modo dovevo muovermi?


In qualche modo, fare quelle liste mi aiutava ad organizzare la giornata.
Riuscivo sempre a portare a termine ciò che mi ero scritta e ad ottenere anche dei buoni risultati.

Nel giro di due mesi avevo venduto circa cinquecento copie, tra eBook e print on demand.
Avevo ottenuto un buon numero di recensioni, tutte positive.
Dopo tre mesi, il mio libro era primo nella classifica IBS.it degli eBook più regalati dell’anno.
Forse per alcuni sembrerà poco. Per altri, sembrerà tanto.
Per me non era né tanto né poco: erano semplicemente obbiettivi che mi ero prefissata di raggiungere.
Mi limito a riportare quanto è successo e quanto ho ottenuto, sapendo di averci messo tutta me stessa.

Poco dopo che il libro venne pubblicato, mia mamma mi disse: “Sei fortunata che hai trovato persone che ti fanno pubblicità, che ti organizzano presentazioni, che ci tengono a parlare del libro.”
Ma io sapevo che la fortuna, in realtà, non c’entrava molto.

Quando lavori su un tuo progetto, quando sei tu a cercare i contatti, a creare legami,
a fare in modo che le persone credano in quello che stai facendo anche più
di quanto ci creda tu, non è fortuna.
Semplicemente avevi chiaro un obbiettivo: ci hai lavorato su e hai ottenuto dei risultati.
Fine.

Nel processo di scrittura e pubblicazione di un libro, tutti pensano che scriverlo sia la fase più difficile.
Le persone credono che sia quello il vero e duro lavoro e, in effetti, prima di pubblicarlo anche io la pensavo così.
Scrivere in effetti non è semplice.
Assemblare tutti i pensieri fino a dar loro la forma di un libro, lo è ancora meno.

La verità è che, quando il libro venne pubblicato, io ebbi in qualche modo la percezione che il duro lavoro iniziasse in quel momento.
E, effettivamente, questo fu ciò che avvenne.

Dopo la pubblicazione, se non hai una casa editrice alle spalle, devi organizzarti tu.
Quello è il momento in cui cerchi i contatti con persone disposte a parlare del tuo libro sui loro blog, sui giornali: ricerchi interviste, recensioni.
Crei tu stesso dei contatti che poi mantieni.
In che modo?
Con la gentilezza. Con la consapevolezza che niente ci è dovuto da nessuno.
E con l’uso di due semplici parole, delle quali a volte scordiamo l’esistenza: per favore e grazie.
Ma in tutto questo c’era anche qualcos’altro.
In qualche modo, l’aver pubblicato un libro fece maturare in me una consapevolezza.

Io non ero nessuno.
E il fatto di aver pubblicato un libro con il mio nome sopra non faceva di me qualcuno.

In Italia, ogni giorno, vengono pubblicati circa duecento libri.
Ogni giorno. Duecento libri.
Quindi… per come la vedo io, siamo tutti dei “nessuno”.
Tutti noi siamo dei nessuno per il mondo, o per le altre persone.

La soluzione non è cercare di essere qualcuno per gli altri.
Agli altri non frega nulla di noi.
La cosa giusta da fare è cercare di essere qualcuno per noi stessi.

Dunque… dov’ero rimasta?
Ah si, giusto: mantenere dei contatti.
Beh, il passo successivo, almeno per me, fu quello di cercare concorsi letterari e fiere online a cui iscrivere il libro.
Ho creato anche un booktrailer. Anche solo per mettermi alla prova.
E poi… ho cercato di guardare al futuro.
Avendo sempre in mente un obbiettivo.
Il che mi riporta a quest’ultima lista che ho fatto un mese fa:

… Su questi ultimi due punti ci sto ancora lavorando.

Martina Vaggi

Photo credit immagine in evidenza: http://booklovers105.blogspot.com/2020/12/recensione-il-diario-del-silenzio.html

Altre immagini: create su Canva.




Crescita personale

Imparare da un ambiente di lavoro imperfetto: la continua ricerca di un mentore

Sono cresciuta in una famiglia di liberi professionisti. Tutti, a casa mia, hanno sempre lavorato in proprio.
Sono sempre stata abituata a sentire discorsi del tipo: “Avere un dipendente costa ad un datore di lavoro, lo sai, Martina?
E questo è, più o meno, tutto.

Ma cosa succede se capiti in un ambiente di lavoro, diciamo, ecco, non proprio all’acqua di rose?
Cosa ti succede?
Cosa succede alla tua mente?

Quali sono gli effetti sulla tua autostima?

A tutti è capitato, almeno una volta.
Sì, anche a voi.
So che state annuendo.

ambiente di lavoro

Trovarsi in un ambiente di lavoro difficile: adattarsi al peggio

“Ritieniti fortunata anche solo di avere un lavoro”

Questa frase oggigiorno è diventata un mantra, sussurrata, ripetuta e scritta praticamente ovunque.
Io è dal primo anno di università che io me lo sento ripetere. (n.d.r. 2011).
Sempre per via del fatto che vengo da una famiglia di liberi professionisti.

Per una persona che vuole fare la dipendente, è quasi una condanna.

Anyway…
Ovviamente, questi discorsi sono tutti corretti. Tutti di facile comprensione anche per chi, come me, ha sempre fatto la dipendente.

Il problema, a parer mio, del sentirsi continuamente ripetere discorsi simili è che viviamo, da parecchi anni, in una situazione di allarmante crisi, dove chiunque di noi si ritrova a mandare milioni di curriculum tutti i santi giorni e tutti i santi giorni si ritrova… senza una risposta.

E, a lungo andare, si rischia di farsi risucchiare da tutto questo.
E tutto questo rischia di trasformarsi in un vortice di apatia e di pigrizia, del tipo: visto e considerato che devi ritenerti fortunata anche solo di avere un lavoro, allora forse non è il caso di rischiare nel cercarne un altro, giusto?
Ed ecco che, a quel punto, il vortice di pigrizia e apatia si trasforma in un tunnel di paura.

Come se non avessi una via d’uscita.

ambiente di lavoro

All’improvviso, ti senti svalutato e ti svaluti continuamente.
Inizi a pensare di non valere nulla. Inizi a pensare che devi restare lì dove sei, senza osare crescere mai, senza mai osare fare ciò che più vorresti fare.

A quel punto guardi con un misto di invidia/incoscienza chi si ritrova nella tua situazione eppure decidere ugualmente di licenziarsi. Chi decide ugualmente di rischiare e, di punto in bianco, andare via, cercare altro, un po’ perché non si ritrova nell’ambiente di lavoro, un po’ per altri motivi.

Da una parte li invidi. Dall’altra… li reputi degli incoscienti.
Come sempre, i due estremi che fanno parte di noi: così difficili da bilanciare.
Così difficile rischiare, scegliere.

Sono finita anche io in quel vortice.
Come tanti mi sono trovata in un impiego temporaneo, non in linea con i miei studi, che poi, per vicissitudini personali, si è rivelato non essere poi tanto temporaneo.

Come tanti ho avuto paura di mollare la presa per paura di cadere nel vuoto.
E nel mio disperato tentativo di rimanere aggrappata a
qualcosa,
ho continuato a nutrire false speranze sul fatto che le cose, magicamente, sarebbero cambiate.

E così sono finita con lo scivolare e cadere giù.
In quel vuoto in cui avevo così tanta pau
ra di cadere.

Me ne sono accorta anni fa, quando mi sono ritrovata senza più alcuna aspirazione.
Mi sentivo vuota dentro, un semplice ammasso di carne che non conteneva più la persona che ero.
Ero come diventata invisibile, inesistente.

Apatica.
Perennemente svalutata. Perennemente in conflitto con me stessa.
Sempre alla ricerca di un appoggio lavorativo esterno o un riconoscimento, che non arrivava.

Quella sensazione di non essere mai abbastanza per nessuno, di non esistere per nessuno, non mi abbandonava mai.
Mi svalutavo continuamente.

ambiente di lavoro

L’ambiente di lavoro e la resilienza: ricerca la soluzione all’interno di te stessa

Andò avanti così per un paio di anni… fino a quando, capii quale fosse il problema.
Quella sensazione di non essere mai abbastanza per nessuno era legata soprattutto al lavoro che facevo e all’ambiente di lavoro in cui mi ritrovavo.
Ma non era quello il problema di fondo.

Il problema non era la considerazione degli altri. Non era nemmeno l’ambiente di lavoro, come ho avuto modo di capire più in là.
Questo mio disagio nasceva da un altro fatto.

Io che non mi sentivo abbastanza per me stessa.

Ma qual era effettivamente il motivo? Era l’ambiente di lavoro o ero io?
Ero io che facevo fatica a integrarmi? Ero io che non riuscivo a farmi scivolare addosso le critiche, la cattiveria, l’invidia?
Ero io che non sapevo rispondere ai comandi, che faticavo a rispettare i ruoli: ero io che, realmente, avevo qualcosa di sbagliato?

Perché non riesco a trovarmi bene nel mio ambiente di lavoro?
Perché non vado mai bene?
Perché, qualunque cosa faccia, per quanto io mi impegni, la situazione non migliora?

Credo che capiti a tutti di rivolgersi queste domande.
A me capitava tutti i giorni.

Fino a quando ho capito che io non dovevo andare bene a chi avevo intorno.
Io dovevo andare bene a me.
Non dovevo, per forza, andar bene ad un ambiente di lavoro negativo.
Non dovevo cercare di adattarmi a forza a rimanere in una situazione dove non sarei mai stata apprezzata.

Sarebbe stato come forzare il mio corpo dentro una taglia 42.
Non sono una taglia 42 dalla seconda superiore.
Come potevo pensare di entrarci?

ambiente di lavoro

Stare male per un ambiente di lavoro difficile: iniziare un percorso di analisi

Avevo capito che se me ne fossi andata da quel posto prima di imparare la lezione che dovevo apprendere, sarei finita in un altro ambiente di lavoro dove le situazioni negative che già avevo vissuto si sarebbero ripresentate con più prepotenza.

Dovevo capire perché tutto questo mi facesse stare male.

E lo capii cercando un appoggio esterno. Iniziai un percorso di analisi, di introspezione.

Il fatto è che dietro ogni situazione di disagio c’è sempre una grande lezione che puoi imparare per te stessa. E questa ne era la prova.
La prova del fatto che ogni situazione negativa ti spinge, ti sprona, inevitabilmente, verso una risoluzione positiva.

Capii che non dovevo costringermi a ricercare un apprezzamento esterno, perché l’unico apprezzamento del quale avevo bisogno era il mio.

Non dovevo guardare con astio a chi, secondo me, non si comportava nel modo corretto.
Era un loro problema, non mio.

Non dovevo continuare a sforzarmi di trovare un modo di comunicare con le altre persone che mi circondavano, quando non ce n’era mai stato uno.
Non dovevo forzare le cose affinché andassero bene. Non era quello il loro destino o il mio.

ambiente di lavoro

Dopo anni passati a scontrarmi con altri, capivo che il problema era mio e non loro.
Dopo anni in cui l’unica cosa che desideravo fare era andarmene da un ambiente di lavoro in cui stavo male, finalmente capivo il perché questo non era mai successo: non puoi liberarti di una situazione che ti fa soffrire scappando o andandotene sbattendo la porta.

Non ti libererai di una situazione negativa in questa maniera, anzi.
Quello è il modo migliore per trascinartela dietro.
Che cosa dovevo fare allora? Oltre a continuare a guardarmi attorno per cercare altro?

Andarsene da un ambiente di lavoro negativo: inizia a prendere le distanze mentalmente

Dovevo concentrarmi su me stessa.
Dovevo, semplicemente, lasciar fluire le situazioni.
Lasciare che le cose facessero il loro corso.

Che liberazione è stata capire tutto questo.
Da quel momento in avanti, è stato tutto più semplice. O, perlomeno, molto più semplice di prima.

Da quel momento in avanti è stato più naturale esercitare la mia indifferenza ad un ambiente di lavoro al quale non appartenevo più e non avrei più potuto appartenere.

Forse è questo che succede, quando inizi a pensare a migliorare te stessa: smetti istantaneamente di occuparti dei disagi degli altri.
A quel punto, nemmeno ti sfiorano più.
A quel punto sei tu che non permetti più loro di sfiorarti.

Smettendo di cercare il difetto o la colpa negli altri, iniziai a vedere con occhi diversi tutte quelle polemiche alle quali ero costantemente abituata in quell’ambiente di lavoro. Adesso le vedevo per quello che erano realmente: polemiche inutili.
Inutili, nel senso che non erano di alcuna utilità per nessuno.

ambiente di lavoro

Smisi di ascoltare le critiche. Smisi di rispondere.
E iniziai, invece, a pormi molte domande.

Perché ho sempre fatto fatica ad adattarmi a quell’ambiente di lavoro, nonostante l’impegno, il tempo, la fatica?
Forse è quello che succede quando rimani troppo a lungo in un luogo che non è il tuo.

Perché facevo fatica a rispettare i ruoli?
Forse è quello che succede quando, semplicemente, tu non ne hai uno.

Io non avevo un ruolo.
Non avevo una missione.
A quel punto, tutto è andato al posto giusto.

Nella vita bisogna avere un ruolo.
In un lavoro devi avere un ruolo e, cosa più importante, in quel ruolo ti ci devi riconoscere.

Devi esserne parte, sentirlo come tuo.

Un ruolo in cui le tue caratteristiche o doti vengono apprezzate, educate, usate.

Se non hai un ruolo non ti possono gestire.
Se non ti riconosci in un ruolo, diventa difficile anche per te gestire te stessa in quella funzione.

Imparare da un ambiente di lavoro tossico: la continua ricerca di un mentore

Una volta capito questo è stato più semplice guardarmi dentro e comprendere quello di cui io avevo bisogno.

Non stavo cercando un lavoro che mi desse la possibilità di diventare il capo del mondo o zio Paperone pronto a tuffarsi in una miniera d’oro.

Io cercavo un mentore.

Semplicemente.

ambiente di lavoro

A darmene conferma, fu un colloquio che feci non molto tempo fa con un selezionatore che mi stava aiutando a modificare il curriculum. Quel giorno, lui mi chiese:
“Tu che cosa ti aspetti da un’azienda? Cosa vorresti in un ambiente di lavoro?
“In che senso?” gli risposi.

“Che cosa ricerchi in un’azienda? Uno stipendio più alto di quello che hai adesso, un contratto più duraturo oppure..?”
“No.” gli ho risposto io.
“Io cerco un mentore. Una guida da seguire. Qualcuno che mi insegni, che mi permetta di crescere.”

Una guida, un mentore.
Una persona da seguire.

Credo che, in fondo, ognuno di noi cerchi questo.

Seguiamo una scia per poter, un giorno, saper disegnare la nostra rotta.
Questo succede quando ci ritroviamo in un mare troppo grande per noi.

Cerchiamo una guida.
Non perché abbiamo paura di affogare,
ma perché sentiamo il desiderio di imparare a nuotare.

Martina Vaggi

Photo credit: Pixabay, Pexels & Canva


Pensieri sulla pandemia

Come la paura del virus è diventata paura di noi stessi

Un anno fa, in questo periodo di febbraio, sembrava incredibile poter anche solo immaginare di condurre la vita che stiamo conducendo ora.
Eravamo ad un passo dal cadere nel baratro Coronavirus, con le prime avvisaglie di ciò che sarebbe successo in seguito: i primi decreti-legge di fine febbraio, il panico, i supermercati svuotati, le mascherine che non si trovavano, quella paura del virus che iniziava a dilagare.

La paura. Quella dilagante paura.

paura del virus

Infine, il silenzio, che tutti noi abbiamo toccato con mano, dalle finestre aperte, chiusi nelle nostre case.

Tutto è iniziato con la paura. Quella paura ci ha accompagnati per un anno che è sembrato un secolo.
Avremmo mai potuto pensare che sarebbe durata fino ad ora?

Dalla paura del virus alla paura dell’altro

In questo ultimo anno abbiamo subìto enormi cambiamenti.
Siamo passati dal vivere incuranti di tutto al non vivere perché abbiamo paura di tutto.

Abbiamo paura del virus.
Abbiamo ancora paura di toccarci, di uscire a prendere un caffè, di muoverci di regione per vedere il nostro fidanzato.

Ma più della paura del virus, abbiamo, forse, ancora più paura di noi stessi: di contagiare i colleghi, gli amici, i parenti.
Di diffondere questo maledetto virus.

paura del virus

Abbiamo paura di esprimere la nostra opinione sulla situazione.
Se vuoi uscire appena ne hai la possibilità, vieni additato di non avere a cuore la salute degli altri.

Se dici che vuoi fare il vaccino vieni giudicato.
Se dici che non ti fidi a farlo, vieni criticato dalla fazione opposta.
Perché è questo che siamo diventati: fazioni.
Gruppi separati e distinti.

Da una parte, ci sono i sostenitori, dall’altra, gli oppositori.
Che cosa sostengano e a cosa si oppongano, non è chiaro, forse nemmeno a loro.

Quello che è chiaro è che sembra che quasi nessuno sia più disposto ad impegnarsi su se stesso: occuparsi degli errori degli altri è molto più interessante.

È un buon passatempo, per chi non vuole guardarsi allo specchio.

La paura del virus che diventa paura di noi stessi: la necessità di essere consapevoli di chi siamo davvero

L’introspezione non è molto comune.
Ti porta a prendere consapevolezza.
E la consapevolezza può generare dolore, angoscia, desiderio di cambiare, di migliorare ogni aspetto che non vuoi vedere, sentire di te.

paura del virus

È come aprire la porta di casa tua e scoprire che non abiti da solo. C’è anche qualcun altro lì con te.
E se quella persona non ti piacesse?
Potresti sempre aprire la porta e invitarlo ad uscire.

Solo che quella casa non esiste nella realtà. Sei tu.
E quella persona non è altro che un lato di te che non ti piace.
Ma non la puoi mandare via.
Ci devi convivere.

Per questo serve coraggio ad occuparsi di sé.

La paura del virus che porta agli estremi: la ricerca della via di mezzo

Serve coraggio per cercare la via di mezzo.
Gli estremi sono lì, facili da scegliere. Facili da alimentare.

Li abbiamo avuti sotto gli occhi ogni giorno per tutto questo tempo.
Li troviamo ovunque:

  • ogni volta che apriamo un social e leggiamo i commenti lapidari, offensivi, rabbiosi, sotto la notizia del giorno
  • ogni volta che assistiamo ad una discussione per strada.

Quegli estremi sono dentro di noi, così prepotenti che diventa difficile bilanciarli.

paura del virus

Ma cosa c’è nel mezzo?
Nel mezzo c’è chi vuole semplicemente esprimere un’opinione.

Nel mezzo ci siamo noi comuni mortali che vogliamo pensare alla nostra vita, ai nostri sbagli, a imparare qualcosa da tutto questo per migliorarci.

Nel mezzo ci siamo noi che non vogliamo più avere paura.

Nel mezzo c’è chi, come noi, vorrebbe solo dimenticarsi di tutte queste polemiche e tornare a vivere con più serenità di prima.

Nel mezzo ci siamo noi che ci tappiamo le orecchie e ci copriamo gli occhi per non sentire, per non vedere tutta questa rabbia.
È difficile non sentirla. È difficile non vederla.

Perché non è solo il virus a essere subdolo.
C’è il virus e poi c’è quella paura che ci tira fuori.

E poi c’è anche quella parte oscura, che ognuno di noi possiede e che questa situazione sembra tirar fuori, con prepotenza.

Quella paura ancestrale di ammalarsi, di contagiare gli altri, di morire, di non essere in grado di vivere veramente.
Il virus fa paura: spaventa, contagia, uccide.
Il resto… Lo facciamo noi.

Martina Vaggi

Photo credit: Pixabay