Autori emergenti

Paolo Arigotti: 10 domande all’autore del libro “Il collegio dei segreti”

Ben ritrovati con la rubrica “10 domande all’autore” firmata Pensieri surreali di gente comune!
Quest’oggi abbiamo ospite Paolo Arigotti, autore emergente di tre libri: “Un triangolo rosa”, “Sorelle molto speciali” e “Il Collegio dei segreti”.

Ci racconterà la sua esperienza come scrittore.
Ben trovato Paolo Arigotti, sono felice di averti qui sul mio blog.
Ecco la prima domanda:

Quando è nata in te la passione per la scrittura?

In un certo senso credo che sia nata con me: basta pensa che, qualche settimana, fa riordinando vecchie carte ho ritrovato alcuni racconti o incipit di romanzi scritti durante il periodo della scuola superiore. 

Il tuo primo libro, “Un triangolo rosa” risale al 2015 ed è appena stato ripubblicato con CTL Editore. 

Che cosa ti ha spronato a pensare: “Devo farlo, devo scrivere un libro”?

Il romanzo è stato scritto tra il 2013 e 2014 e fu il frutto di un viaggio in Polonia, durante il quale visitai il memoriale di Auschwitz. Furono i racconti delle guide ad ispirarmi la vicenda dei tre protagonisti, che ho trasformato nel mio primo libro.

Paolo Arigotti

Parlando proprio del tuo primo libro, “Un triangolo rosa”: vuoi descriverci la trama?

Di che cosa tratta?

Si tratta di una storia d’amore gay che coinvolge tre uomini, due italiani e un tedesco, sullo sfondo dei drammatici eventi degli anni Trenta e Quaranta del Novecento. La trama si snoda attraverso quei fatti, con una serie di colpi di scena che condurranno i protagonisti nell’inferno di Auschwitz.

(Libro su Amazon):

In questo libro tu affronti un tema molto forte: quello di un amore omosessuale durante il periodo nazista, momento storico in cui, come sappiamo tutti, purtroppo gli omosessuali erano brutalmente perseguitati. 
Come ti è venuta l’ispirazione di affrontare proprio questo argomento e perché?

Il titolo si riferisce all’amore tra i tre uomini?

Anche se il termine “rosa” mi mette un dubbio…

Il titolo si collega con le vicende dei tre protagonisti, però ha pure un altro significato, visto che il triangolo rosa cucito sulle divise individuava i gay internati nei lager ed avviati allo sterminio.

La mia grande passione per la storia del Novecento mi ha assieme aiutato ed ispirato nelle ricerche, che hanno dato vita a questo romanzo.

Parlerei ora di “Sorelle molto speciali”, il tuo secondo romanzo, pubblicato nel 2018 con Link Edizioni. Libro del quale mi piace moltissimo la copertina, ti devo dire la verità.

Qual è la trama di “Sorelle molto speciali“?

Si tratta anche in questo caso di una storia d’amore, di un altro tipo però, precisamente quello di una madre per le sue figlie gemelle, una delle quali nata con la sindrome di Down. Parliamo sempre degli anni Trenta del secolo scorso, una condizione oltremodo difficile per l’epoca e sullo sfondo di un’altra tragedia: il folle progetto nazista dell’eliminazione dei disabili mentali, a cominciare proprio dai bambini.

In questo libro affronti anche il tema della disabilità, in quanto una delle protagoniste è affetta dalla sindrome di Down.

Paolo Arigotti

Quali valori volevi trasmettere ai tuoi lettori affrontando questa tematica?

Il coraggio di sfidare i pregiudizi e di non arrendersi,
specie quando la vita ti mette di fronte sfide apparentemente impossibili.

Siamo arrivati al tuo ultimo libro: “Il collegio dei segreti”, pubblicato nel 2020 con Onda d’Urto Edizioni. 
Quest’ultimo libro, più che narrare una storia, ripercorre un fatto storico realmente accaduto, è corretto?

“Il collegio dei segreti” si basa su fatti realmente accaduti?

I protagonisti sono personaggi di fantasia, ma i fatti storici – la resistenza tedesca giovanile contro il nazismo – sono reali ed ho voluto provare a riportare alla luce la storia dimenticata di tanti eroi condannati all’oblio per tante ragioni, storiche e politiche.

Paolo Arigotti

Fai un frequente ricorso alla storia nei tuoi libri, specialmente al periodo del Nazismo: che cosa ti ha spinto ad occuparti proprio di quel periodo storico cosi drammatico e nefasto?

Che valori volevi trasmettere occupandoti del periodo nazista?

Io sono un appassionato di storia del Novecento da sempre, il che mi ha spinto a conseguire una seconda laurea in questa materia lo scorso anno.

Il valore più importante è quello della memoria, intesa non come semplice ricordo, ma soprattutto per comprendere come certi fatti sono potuti accadere e scongiurare il pericolo che possano ripetersi.

Su Amazon trovate anche “Il collegio dei segreti“, qui:

I tuoi libri sono stati tutt’e tre pubblicati con un editore: cosa ne pensi di chi oggi preferisce rivolgersi al self-publishing?

Tu hai mai considerato questa opzione?

Io sono più incline alla pubblicazione tramite l’editoria tradizionale, purché non si tratti di editoria a pagamento, scelta che con tutto il rispetto non condivido. Il self publishing in Italia non è decollato come in altre realtà (penso a quella americana ad esempio), ma non ho nulla da eccepire nei confronti di chi fa questa scelta.

Tu gestisci anche una pagina YouTube intitolata “Il salotto culturale di Paolo Arigotti Scrittore”, dove intervisti autori ed editori.

Vuoi raccontarci qualcosa di questa bella iniziativa? 

Si tratta di una piccola rubrica che gestisco da oltre un anno sul mio canale YouTube, dove intervisto autori ed autrici di tutta Italia (e non solo), dedicandoci non soltanto alle opere letterarie, ma a tanti argomenti storici, culturali e di attualità.

L’ho creata per via delle restrizioni imposte dai vari lockdown, stante l’impossibilità di realizzare eventi dal vivo; non credo che il web debba sostituire questi ultimi, ma certamente può affiancarsi come importante strumento di promozione della cultura.

E noi non possiamo che essere d’accordo con te…
Bene, Paolo Arigotti, questa era la mia ultima domanda… Sono molto contenta di averti avuto ospite oggi sul mio blog.
Io ti saluto e ti faccio un grosso in bocca al lupo per i tuoi libri… e per quelli che verranno! 

Tante grazie Martina, piacere mio.

Ma, prima di andare…

Recapiti social Paolo Arigotti:

Paolo Arigotti, Paolo Arigotti, Paolo Arigotti

Martina Vaggi

Photo credit: le foto presenti in articolo sono tutte di Paolo Arigotti, che me le ha concesse solo ai fini della pubblicazione dell’articolo.

Autori emergenti

Gabriele Glinni: 10 domande all’autore dell’inedito “Ascend-ent”

Ben ritrovati con la nuova rubrica “10 domande all’autore” di Pensieri surreali di gente comune!
Quest’oggi ho il piacere di avere come ospite sul mio blog Gabriele Glinni, mediatore linguistico, blogger e scrittore di un libro inedito che vedrà presto la luce. 

Allora, Gabriele Glinni, bentrovato!
Sono molto contenta di averti qui, sul mio blog.

Gabriele Glinni: Ciao a te, Martina. Il piacere è tutto mio! Devo dire che non mi aspettavo per niente questa occasione, nel senso che di solito sono io che sguinzaglio interviste alla gente, ma quando sono pour moi mi sento sempre in soggezione (ride, n.d.r.).

No scherzo. Sul serio, grazie! Se non altro quantomeno di aver speso tempo a pensare e a scrivere alle domande, non è cosa da poco.

Premetto le mie risposte potrebbero suonare o molto personali o sarcastiche, questo perché non mi piace scrivere wall of text noiosi e prolissi. Inoltre mi ritengo e vengo considerato una persona estremamente trasparente e onesta (sia in senso positivo che negativo).
Dirò esattamente cosa penso.

E io sono estremamente felice di questo!
Inizio subito parlando del tuo romanzo inedito, che si intitola “Ascend-ent”: ha un titolo davvero curioso.

Gabriele Glinni

Come hai scelto il titolo e di che cosa tratta il tuo libro?

Puoi illustrarci la trama?

Gabriele Glinni: Allora allora, iniziamo dicendo che Ascend-ent è una crasi. Ovvero include sia il verbo “to ascend” (ascendere) che “ascendent” (l’ascendente di qualcuno su qualcun altro). 

Ascendere è inteso come il percorso e l’impegno del protagonista, Wade, per migliorarsi.
Ascendente è inteso come l’influenza dei vari personaggi (includendo anche varie figure) l’una con l’altra, finendo con il rivoluzionarsi la vita a vicenda, senza notarlo.

Ora la trama
Allora l’idea di base è questa.

C’è stato un virus chiamato Encevirus, scopiazzato ovviamente dal Covid, nel senso che è stato privo di sintomi particolari.
Tuttavia, post Encevirus, la realtà è cambiata radicalmente. Anche persone che non ne sono risultate positive hanno sviluppato la capacità di esercitare un controllo su determinati oggetti. Queste persone vengono chiamate “gli specialisti”.
Per esempio, Wade Cameron, il protagonista, è diventato in grado di controllare gli scontrini. Non carta, non papiri, specificamente scontrini, scelta intenzionalmente ridicola.

Wade è infatti un neolaureato in Marketing senza alcuna passione per il proprio percorso di studi.
Si ritrova in questo tedioso limbo di non sapere che fare della propria vita, in un mondo lavorativo che, lo sappiamo, diventa sempre più spietato ed esigente.
Wade non ha alcun talento se non quello per il disegno e la capacità di manovrare dei piccoli, buffi scontrini.

Un noioso pomeriggio estivo riceve una chiamata da un’associazione, la NeolGen, (prima dell’editing del libro la chiamata avveniva da parte del fondatore, Paul Auberon: adesso le cose sono un po’ cambiate). Comunque… questa chiamata gli offre la possibilità di entrare a far parte della NeolGen durante un evento di apertura agli inizi di settembre.

Wade, pieno di dubbi ed interrogativi, accetta.

𝑇𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑟𝑖𝑒𝑠𝑐𝑜 𝑎 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑟𝑒 𝑒̀, 𝑑𝑜𝑝𝑜 𝑙’𝑒𝑛𝑐𝑒𝑣𝑖𝑟𝑢𝑠, 
𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑡𝑎̀ 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑒𝑚𝑏𝑟𝑎 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑙𝑎 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑎.
𝐿𝑒 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑚𝑒𝑡𝑟𝑜, 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑞𝑢𝑖𝑒𝑡𝑒, 𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑎𝑛𝑜 𝑖𝑙 𝑐𝑒𝑙𝑙u𝑙𝑎𝑟𝑒, 
𝑝𝑎𝑟𝑙𝑎𝑛𝑜 𝑡𝑟𝑎 𝑑𝑖 𝑙𝑜𝑟𝑜, 𝑟𝑖𝑑𝑜𝑛𝑜, 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑛𝑜 𝑎𝑖 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖. 
𝑀𝑎 𝑐’𝑒̀ 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑛𝑒𝑖 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑚𝑜𝑑𝑖 𝑑𝑖 𝑓𝑎𝑟𝑒, 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑐’𝑒𝑟𝑎. 
𝐿’𝑖𝑛𝑐𝑒𝑟𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎, 𝑙a 𝑝𝑎𝑢𝑟𝑎, 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑜𝑐𝑖𝑒𝑡𝑎̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑒̀ 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑎 𝑓𝑟𝑎𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎𝑡𝑎. 

Gabriele Glinni

Queste parole arrivano direttamente dal tuo libro e, devo dire con sincerità, che incuriosiscono molto. Curiosi sono i riferimenti ad una società, come dici tu “fratturata”: viene quasi da fare un parallelismo con la realtà che stiamo vivendo ora. 

Questo paragone ha un senso?

C’è un nesso con la realtà odierna?
Da quant’è che stai lavorando a questo inedito?

Gabriele Glinni: Assolutamente sì.

Come avrete capito, Ascend-ent è una sorta di parodia/take sulla società moderna, in chiave action/sovrannaturale.

Nel senso, c’è un clima di incertezza, c’è sospetto verso tutto ciò che è diverso, c’è la disoccupazione, c’è una situazione di, cito espressamente Wade:

“I ricchi si arricchiscono e i poveri si impoveriscono” 

(nel senso che la NeolGen favorisce direttamente figure come ingegneri linguisti anche un po’ programmatori contro neolaureati in non si sa bene cosa).

La tematica principale è la ricerca di se stessi: scoprire chi si è veramente, cosa si vuole, chi è il vero “sé”. Quindi, nonostante le premesse “supereroistiche”, non ha assolutamente niente del genere. Tant’è che i nemici principali stringono molto l’occhio al genere horror, al posto di essere specialisti cattivi o qualcosa del genere. 

Gabriele Glinni

Ma, per ora, mi fermo 😉 

Da quanto ci sto lavorando? Mi sembra suppergiù da aprile, credo, dell’anno scorso.

Anticipo che scrivo da quando avevo quindici anni, e l’anno scorso, per una serie di motivi (per riassumere molto: relazione di 9 anni volta al termine), volevo fermarmi definitivamente. Ma dei cari amici mi hanno motivato a riprendere.
Quindi vorrei ringraziare in particolare Orlando Palone per essermi stato sempre vicino, Erica Secondini per avermi spinto a proseguire con la scrittura e il balzante Alessandro Bolzani per aver creduto nelle mie capacità.

Ps.: mi piace fare nomi di persone in queste occasioni. In realtà ce n’è stata solo un’altra, ma dettagli.

Beh, che dire Gabriele… da questo inizio, direi che hai fatto bene a non fermarti e a continuare a scrivere!

Restando in tema di un argomento molto dibattuto oggigiorno, vorrei chiederti qualcosa in più su un argomento in particolare.

L’ Encevirus”: cosa puoi rivelarci, senza rivelare troppo?

Gabriele Glinni: In realtà non molto, Martina.

Inteso che l’Encevirus in sé e per sé è secondario e quasi solo un espediente narrativo che fa avvenire le cose. Resta molto misterioso e indefinito su come abbia alterato la realtà (tant’è che, ripeto, anche gente non positiva è stata condizionata).

Il vero problema sono le conseguenze che ha generato. Oltre gli specialisti c’è un altro lato della medaglia di cui non ho proprio parlato.

Ascend-ent studia com’è cambiata la società DOPO il virus, non IL virus in sé.

Beh, è sicuramente interessante anche questo.
Dal momento che oggi viviamo in una realtà dove non si parla di nient’altro che di un virus, tu hai preferito incentrare il libro sulla società e sul suo cambiamento.

Ma veniamo ora ai personaggi. Ti faccio una domanda un po’ off topic: tu hai presentato i tre personaggi principali della tua opera (Wade, Darius e Lea).

Gabriele Glinni

A quali dei personaggi protagonisti pensi di assomigliare di più? 

In quale di loro ti ci ritrovi?

Gabriele Glinni: Tutti e tre per vari motivi.

Wade è un tipo approssimativo, negativo e pessimista al suo peggio; coraggioso, intraprendente e tutto d’un pezzo al suo meglio.

Darius è l’ingegnere linguista anche un po’ programmatore che ti dicevo, lungi da quel che sono, ma è parecchio goffo sia come gestualità sia come abilità sociali, e in questo mi ci rispecchio al 100%. Inoltre ha una sorta di blocco mentale che qui non svelo, che si rifà al mio vissuto.

Lea è quella che mi somiglia di meno, ma è una malata di social media e talvolta nemmeno io scherzo.

Bene, Gabriele… torniamo invece ora a parlare del libro e delle sue fasi editoriali. 

Dunque, il libro è un inedito, quindi non è stato ancora pubblicato. 
A che punto sei arrivato con le varie fasi che precedono la pubblicazione di un testo?

Hai già trovato una casa editrice o pensi di pubblicarlo in self-publishing?

Gabriele Glinni: Allora, premetto subito che il libro è stato concluso a dicembre 2020. O almeno, la prima stesura.

Avrei potuto tranquillamente pubblicarlo così com’era, ma mi sono rifiutato e ho cercato in lungo e largo un editor che mi convincesse.

Ho spulciato su Writer’s Dream e LinkedIn, e alla fine ho trovato un’agenzia e una professionista che rispecchiassero perfettamente il mio modo di lavorare e pensare: Progetto Scrittura (https://www.progettoscrittura.it/) e Sara Coradduzza.

Il preventivo era altino, ma ho accettato senza esitare.

Gabriele Glinni

Gabriele Glinni: Con Progetto Scrittura e Sara, nonostante ci vorrà tantissimo altro tempo per completare Ascend-ent, sto perfezionando il prodotto finale. Ovvero stiamo lavorando su refusi, resa grammaticale e struttura narrativa, modificando, rimuovendo e aggiungendo interi pezzi di storia. Un lavoraccio.

Devo dire, in totale onestà, se da una parte vedo il potenziale del lavoro, dall’altra è difficile accettare alcune “rivoluzioni” sul mio testo (ride, n.d.r).

Non è mai stato mio interesse il guadagno – tanto più il fornire un’opera finale che sia al massimo livello possibile. Che poi la leggeranno quattro gatti, amen. Voglio solo essere consapevole di aver pubblicato un ottimo libro.
Ciò detto, al momento di questa intervista stiamo revisionando il terzo capitolo (di circa 7-8).

L’obiettivo è pubblicare in self tramite Amazon. Un po’ perché non mi interessa stare a combattere appresso a case editrici, un po’ perché Ascend-ent come formato lo vedo di più come eBook. Non ce lo vedo troppo come romanzo classico.

Insomma, il punto è questo, voglio fare di testa mia senza troppe rotture di scatole, cercando di completare un romanzo divertente da leggere e che possa lasciare qualcosa. Niente più, niente meno.

Beh, mi sembri sicuramente deciso nei tuoi intenti… Ma, dimmi, invece, per quanto riguarda la copertina.

Gabriele Glinni

La foto che vediamo qui sarà la copertina definitiva del libro? 

Gabriele Glinni: No. L’immagine è un tentativo di copertina minimal da parte mia, editando e giocherellando, con Canva e Photoshop, con un disegno che ho commissionato. È un po’ come immaginavo la copertina definitiva e come vorrei fosse.

Preferisco un aspetto minimal che salti all’occhio, piuttosto di qualcosa di particolarmente elaborato.

Tu gestisci anche un blog, che si chiama Pillole di Folklore e Scrittura: com’è nato?

In quanti siete a gestirlo?

Gabriele Glinni: Pillole di Folklore e Scrittura (https://pilloledifolklore.org) è nato dalla mente del balzante che voleva riportare in auge un suo vecchio progetto, chiamato Pillole di Mitologia, poi fatto a pezzi da hacker malvagi.

Casualmente, nello stesso periodo in cui voleva aprire il blog, io stavo riscoprendo vecchie amicizie, tra cui quella di Alessandro, e mi sono imbarcato all’avventura con lui.
Inizialmente era un progettino che trattava unicamente di scrittura e folklore (per l’appunto), con un massimo di 2-3 articoli a settimana, e visitatori per mese che se raggiungevano il centinaio era un miracolo.

Poi piano piano ci sono stati alcuni cambiamenti, tra di questi:

  1. ho fatto unire la mia amica Ilenia, che si occupa di recensioni di libri
  2. per il motivo più bislacco ho iniziato a intervistare gente su hobby, studi, ecc., e quest’idea ha avuto molto successo
  3. abbiamo incrementato la quota degli articoli pubblicati per settimana
  4. abbiamo incrementato le piattaforme dove fare pubblicità, e in generale la pubblicità al blog stesso
  5. abbiamo fatto unire Martina Di Carlo (conosciuta da me su LinkedIn) che si occupa di articoli di traduzione, ed Elisa, una mia ex collega che si occupa di recensioni di videogiochi. 

Insomma, il blog si è evoluto moltissimo e ad oggi abbiamo un numero incredibile di visite!

Gli admin siamo Alessandro ed io, e i collaboratori sono: Ilenia, Elisa e Martina.

Ho avuto il piacere di essere anche io intervistata da te per il blog Pillole di Folklore e Scrittura, a proposito del mio libro.

Quand’è che hai deciso di riservare uno spazio del blog a interviste/recensioni di autori emergenti? 

Gabriele Glinni: Preparati a ridere.

Una delle prime interviste era una subdola strategia per attaccare bottone. L’esigenza era trovare una ragazza. Niente più, niente meno.

Poi comunque mi divertii, mi intrigava fare articoli dedicati ad amici e conoscenti, e così ho iniziato a chiedere in giro. Hanno accettato con piacere.

L’idea ha avuto trazione e, ad oggi, vengo contattato per scrivere interviste! Chi l’avrebbe mai detto?
In particolare, sono piaciute moltissimo quella a Orlando, a Yuri e a Vanessa.

Beh, sicuramente è stata un’idea interessante, la tua… Non ti nego che io stessa ne sto prendendo spunto per fare interviste, qui sul blog.

Parliamo adesso di te e del tuo percorso di vita.

Tu sei un mediatore linguistico. Che percorso di studi hai svolto?
Come mai hai deciso di intraprendere questa strada?

Gabriele Glinni: Allora, “mediatore linguistico” è un titolo di cui mi fregio perché, in realtà, sono molto più specializzato in traduzione che interpretariato.

Il mio percorso di laurea è infatti Traduzione e Interpretariato, con un master in Traduzione Cinetelevisiva e Sottotitolaggio, e tutto nasce dalla mia abilità con l’inglese.

L’inglese è sempre stato parte di me perché… non volevo aspettare le versioni italiane dei videogiochi (specie Pokémon), e quindi, versione americana dopo versione americana, mi sono fatto una cultura non indifferente. Aggiungiamoci telefilm, ore perse a litigare su reddit e forum online con stranieri, il tutto il lingua inglese, e ho imparato la lingua così.

I miei genitori mi hanno sempre molto spinto a studiare altre lingue. Conosco infatti bene il francese e il portoghese. So qualcosina di spagnolo e di russo.
Tornando al discorso principale, ecco, il problema è questo. 

Il lavoro di traduttore oggigiorno è non solo sottopagato, ma difficile da avere.
Devi vincere la lotteria per lavorare in-house e trovare tanti clienti come freelance è tutt’ora una leggenda urbana per me.

Girando su LinkedIn, la realtà che osservo è che TANTI laureati in lingua vacillano nel triste stato del coso verde “open to work”, con esperienze di lavoro che includono “traduttore freelance” dell’aria.

E vi dico la verità.

Purtroppo per conoscere le lingue non è necessaria una laurea. Nel senso che ho colleghi e amici ingegneri che le lingue le sanno bene, e pure meglio di un laureato in lingua. Perché essere laureati in lingua NON vuol dire automaticamente avere un C2 in tutte le lingue studiate.

Allora, chi sarei io? Il “tizio che sa più lingue di tutti” e che è capace di usarle a livello lavorativo, per la comunicazione interpersonale e la traduzione. Da qui il titolo di “Mediatore Linguistico”. 

A essere completamente sincero, col senno di poi avrei voluto studiare programmazione. Sapere usare Javascript e programmare funzionalità di siti internet. Ma sono cose che si capiscono tardi e non rimpiango nulla del mio percorso. Anche perché l’abilità linguistica è, COMUNQUE, sempre apprezzata e utile, e mai dire mai. Pubblicato Ascend-ent vorrei dedicare tempo alla programmazione.

Sapere le lingue è un qualcosa caduto in secondo piano.

Infatti, nell’azienda dove lavoro, mi è stato richiesto di lavorare a una traduzione ma come cosa secondaria rispetto al lavoro principale. Mi ha reso molto felice, ma, ecco, vi fa capire.

Gabriele Glinni

Parlando di lavoro, appunto…Nella situazione di enorme difficoltà che stiamo vivendo oggi nella ricerca di un lavoro, tu sei riuscito nell’impresa?

Hai trovato il lavoro per il quale hai dedicato anni di studio?

Gabriele Glinni: Nì.

No nel senso che non lavoro nell’ambito della traduzione, o comunque della scrittura creativa.
Sì nel senso che lavoro nell’ambito della comunicazione interpersonale, cosa che amo, e nell’ufficio si usa molto l’inglese.

Ma credo che, prima di tutto, bisogna essere in grado di adattarsi e accettare di imparare cose nuove (fino a un mese fa manco sapevo cosa fosse una cessione del quinto), anche perché il lavoro DIPENDE dal mercato e NON dalle nostre esigenze, ahimè. Poi… un’azienda intelligente saprà utilizzare TUTTE le capacità di un proprio dipendente.

La vedo così.

Bene, Gabriele Glinni, questa era l’ultima domanda!

Io ti ringrazio di essere stato qui, sul mio blog.

Hai dato spunti molto molto interessanti, su cui riflettere.
Ti faccio un grosso in bocca al lupo per la futura pubblicazione del tuo inedito “Ascend-ent” e… per tutto!

Grazie ancora! 

Gabriele Glinni: Grazie a te e in bocca al lupo a te, Martina.

È stato un piacere e senz’altro un onore.

Gabriele Glinni lo potete trovare anche qui.

Profilo social Gabriele Glinni: https://linktr.ee/Gabrieleglinni

Martina Vaggi

Photo Credit: foto di Gabriele Glinni, https://pixabay.com e https://www.canva.com

Crescita personale

Recruiter e candidati: la mancanza d’empatia e la ricerca del feedback perduto

Chiunque frequenti LinkedIn ha modo di osservare la presenza costante di post tra loro simili o con un leitmotiv abbastanza ricorrente.
Uno di questi riguarda i dibattiti sui recruiter e candidati.

Spesso, infatti, mi capita di osservare post in cui:

  • recruiter si lamentano di candidati e di colloqui
  • candidati si lamentano di non trovare lavoro o di non avere nemmeno un feedback da parte dei recruiter.

L’altro giorno su LinkedIn mi sono imbattuta in un post di una recruiter in cui veniva messo in luce il “conflitto” tra queste due parti.

Recruiter e candidati: vittime e carnefici

Nel contemporaneo panorama di offerta/ricerca di lavoro, lei rilevava come spesso i recruiter venissero etichettati come carnefici e i candidati come vittime.
Lei rilevava anche come questo creasse talvolta degli schieramenti tra le due parti.

A questo proposito, è nata in me una riflessione.

Viviamo in un momento difficile.
Lo sappiamo.

Viviamo in un mondo che si è impoverito di valori umani.
Credo che tutti possiamo essere d’accordo su questo.

Se parliamo di persone, possiamo dire che è difficile trovare onestà?
Possiamo affermare che, in molti settori sia difficile trovare ancora gentilezza? 
Non impossibile. Semplicemente più difficile di prima.

Possiamo essere certi che sia molto più facile trovare frustrazione, rifiuto della realtà.
Modi per lamentarsi e lamentarsi ancora.

Di questo, i social sono sempre stati terreno fertile.

Recruiter e candidati

La ricerca di lavoro e i feedback: recruiter e candidati a confronto

Oggi è difficile trovare lavoro
Non che un tempo fosse facile.

Però oggi la ricerca di lavoro appare essere molto più impegnativa: spesso si dice, infatti, che cercare lavoro sia, a tutti gli effetti, un lavoro.

Il fatto di cercare lavoro e di non trovarlo genera nel candidato già una buona dose di frustrazione, ovviamente.

Ma non solo.
Oggi sappiamo che è anche difficile avere anche solo un feedback, una risposta (anche negativa) ad una propria candidatura di lavoro.

A me è capitato circa un mese fa.
Ho inviato una candidatura e, dopo pochi giorni, ho ricevuto un feedback negativo.
Sono rimasta a tal punto stupita dal fatto di aver ricevuto anche solo un riscontro, che ho risposto alla mail, ringraziando la recruiter di avermi dato il feedback.

In pratica, ho ringraziato per aver ricevuto una risposta negativa.

Rende bene la situazione in cui ci troviamo oggi, credo.

Purtroppo la scusante del “momento difficile” o del “periodo Coronavirus”, in questo caso, non regge: io mandavo molte candidature anche prima di trovare lavoro (anno 2013-15) e anche in quegli anni di feedback se ne ricevevano ben pochi. 
Quindi escluderei il fattore “pandemia” dai motivi per i quali ben pochi di noi ricevono feedback alle proprie candidature.

Ma io non sono una recruiter.
Partiamo da questo.

Recruiter e candidati

E non ho idea di quante candidature possa ricevere un recruiter oggigiorno: immagino moltissime. 
Non è difficile da pensare, no?

La mancanza di feedback

Adesso cerco di guardare la questione da una diversa angolazione.

Da candidata io non ho mai condiviso la mancanza di feedback
Personalmente, credo che una risposta sia sempre doveroso darla.

Non condivido l’atteggiamento di un’azienda che non risponde ad una candidatura, ad una proposta, ad un progetto. 
Ma questa è solo la mia opinione.

Recruiter e candidati

Il punto è questo: io non so se, onestamente, al posto loro sarei in grado di fare meglio. 
Nessuno di noi può saperlo, fino a quando non si ritrova ad essere al posto di una persona (o di un ruolo) che sta giudicando. 

Ora provo a guardare la situazione da un altro punto di vista ancora.

La mancanza di empatia e le sue conseguenze

L’empatia ormai sembra essere una “specie” in via d’estinzione.

Lo possiamo osservare in tutti gli aspetti della vita quotidiana, anche in questa questione recruiter/candidati.

Gli uni non si mettono nei panni degli altri.
Si formano incomprensioni, discussioni sterili.
Si delineano due fazioni, che raccolgono idee contrapposte.

Di solito non è così facile trovare persone disposte a mettersi nei panni dell’altro, anche perché è anche vero che non tutti sono in grado di farlo.
Ma ascoltare e porre domande è l’unico modo per conoscere veramente una persona, un ruolo e creare così un ponte d’accesso per riuscire a vestire i suoi panni.

A questo proposito, mi viene in mente una frase che ho letto giorni fa, di Henry Ford

Il segreto del successo nella vita, se ne esiste uno, risiede nella capacità di comprendere il punto di vista dell’altro  e vedere le cose attraverso i suoi occhi”.

Recruiter e candidati

Imparare a lasciare fluire le situazioni: tra recruiter e candidati di chi è la responsabilità?

C’è poi un’altra questione da considerare, ancora più difficile da realizzare, forse, perché di natura più “spirituale”.

A volte sarebbe necessario lasciar fluire le situazioni e le persone dalla nostra vita.
Sarebbe opportuno fare il proprio percorso, senza imporsi su quello degli altri.
Senza occuparsi minimamente di quello degli altri.

In altre parole: dare senza pretendere.
Senza pretendere che gli altri capiscano o ti restituiscano quello che hai dato.

In altre parole ancora: se mandi un curriculum e non ti viene dato feedback, quello non è un tuo problema.
Nel senso che tu non puoi lavorarci su. Non puoi gestirlo, non puoi risolverlo.

Questo perché il modo in cui tu ti poni è una tua responsabilità.
Le azioni che fai, i gesti che compi.
Il modo in cui gli altri rispondono (o meno) è una loro responsabilità.

Non è tuo (nostro) compito occuparcene.

Il compito di un candidato

Il tuo compito (il mio compito) come candidato è andare avanti nella ricerca di un proprio percorso di crescita. E di lavoro.

Questa è solo la mia opinione, ovviamente.

Recruiter e candidati

Non sto dicendo che è bello non avere una risposta: non lo è.
Come non è bello essere sempre, perennemente, scartati dai recruiter e dal mondo del lavoro.

O sentirsi ogni giorno svalutati.
Niente di tutto questo è bello.

Ma essere sempre incazzati con il mondo è peggio.

Senza contare poi che lamentarsi impegna energia, tempo, bruciore di stomaco, bile…
Non rende una bella immagine, vero?

Tutto questo per dire che: non ha senso intasare i social lamentandosi continuamente.
Non ha senso cercare sempre un colpevole, laddove non c’è.

Ma soprattutto: non ha assolutamente senso alimentare la propria frustrazione.
E ne so qualcosa, purtroppo.
È una via a senso unico che ti porta solo a sprecare le tue risorse.

Perché se del feedback non pervenuto di un recruiter ti liberi spegnendo il computer, della tua rabbia non ti liberi nemmeno quando chiudi gli occhi la sera.

Martina Vaggi

Photo credit: https://pixabay.com

recruiter e candidati, recruiter e candidati

Autori emergenti

Giorgia Amantini: 10 domande all’autrice di ‘Vortice’ e ‘Muro contro Muro’

Un caro saluto ai lettori del mio blog!
Per questa nuova rubrica di collaborazioni intitolata “10 domande all’autore“, ad opera di “Pensieri surreali di gente comune”, abbiamo come ospite quest’oggi Giorgia Amantini, autrice emergente di due libri e regista teatrale per l’associazione culturale Arcadialogo di Nettuno.

Partiamo subito con le domande all’autrice.

Innanzitutto, saluto Giorgia Amantini e le do il benvenuto sul mio blog!

Iniziamo subito parlando di te e del tuo percorso: tu sei laureata in Management, economia, finanza e diritto d’impresa. Vedendo il percorso di studi da te intrapreso, mi viene da subito la curiosità di farti questa prima domanda.

Quand’è che ti sei avvicinata alla scrittura? 

Giorgia Amantini: Ciao Martina e grazie per avermi ospitato sul tuo blog, sono molto felice che tu mi abbia dato la possibilità di potermi esprimere e far conoscere ai tuoi lettori. Sì, a prima vista riesce difficile credere, vedendo il mio percorso di studi, che possa essermi dedicata alla scrittura. Ma questa passione l’ho scoperta quando avevo 17 anni, in seguito a un evento personale molto doloroso che ha dato modo di far esplodere tutto quello che avevo dentro proprio attraverso la scrittura medesima.

Giorgia Amantini

Amo la letteratura da sempre, ma la scrittura è qualcosa a cui mi sono avvicinata in giovane età anche grazie all’esperienza teatrale amatoriale, che mi ha permesso, poi, di spaziare e di affinare tecnicamente il mio modo di scrivere.

Scrivere sempre per poter scrivere sempre meglio.

E io la faccio, ormai, da vent’anni. Sperando di migliorare giorno dopo giorno.

Qual è stato il momento decisivo che ti ha spinto a pensare: “Voglio provarci: voglio pubblicare un libro”?

Giorgia Amantini: È stato un momento molto particolare, anche perché arrivato in ritardo rispetto a quando lo avevo sognato. Contando che la mia prima pubblicazione risale al 2018, si può capire quanto sia stata insicura e spaventata nel buttarmi a voler proporre un mio inedito a una casa editrice. Ciò che mi ha spinto a farlo è stata sicuramente una consapevolezza maggiore di me stessa.

Sai, a volte non sempre diamo a noi stessi il rispetto che meritiamo, diamo sempre importanza ad altro, facendolo diventare per necessità la nostra priorità.

Ecco, posso dire che in un momento non molto positivo che stavo vivendo nel 2018, sono riuscita a trovare la forza per dire basta e per dedicarmi finalmente a ciò che desideravo. È stato un tentativo che poi è riuscito, è scattato qualcosa dentro di me forse legato alla voglia di voler finalmente esprimere la mia interiorità, fino ad allora nascosta nei numerosi inediti che ho nel mio cassetto. E da lì, non mi sono più fermata.

Parliamo proprio del 2018, l’anno in cui hai pubblicato il libro “Vortice”, edito da Albatros Il Filo.

Potresti raccontarci di cosa parla il libro “Vortice”?

Giorgia Amantini: “Vortice” ha nel titolo tutto ciò che esprime. I sentimenti dei protagonisti, tutti anonimi, tutti quasi surreali, tutti legati alla loro inesorabile vita/non vita, ti trascinano nel vortice delle loro sensazioni più profonde e segrete. Soprattutto la mia Lei, una donna che non hai mai compreso fino in fondo di essere tale fino a quando non incontra in circostanze molto particolari questo Lui imperfetto, ma umano.

Vortice” è un monologo introspettivo dove ognuno si può riconoscere nei suoi tormenti personali. Non c’è spazio, non c’è tempo, non ci sono riferimenti: c’è solo un momento, un istante che si dilata nella storia diventando “la storia”, un momento che però cambierà per sempre la vita dei protagonisti, portandoli finalmente a scegliere di essere liberi. Nel bene e nel male.

Giorgia Amantini

Leggendo la sinossi, appare chiaro che si tratta di un’avvincente storia dai toni cupi e dai forti colpi di scena. Ma un aspetto mi ha incuriosita molto.

In “Vortice” c’è di mezzo anche una storia d’amore?

Puoi svelarci qualcosa, sotto questo aspetto?

Giorgia Amantini: Posso dirti che questa storia d’amore di cui parli, non è una storia d’amore convenzionale. Lei e Lui si amano, ma non di quel sentimento passionale e fisico che tutti conosciamo e raccontiamo, ma di un sentimento umano.

Entrambi, durante il loro incontro forzato, scoprono solidarietà, dolcezza, comprensione, come se quel momento che stanno vivendo li possa far redimere dal loro essere/non essere. Come se fino ad allora non avessero mai vissuto veramente, prigionieri di sé stessi: è nel loro conoscersi che trovano finalmente la chiave della propria libertà.

Ci sono dei momenti nel romanzo che fanno capire proprio questo, momenti molto profondi, ma sempre fortemente introspettivi.

Il libro su Amazon lo potete trovate qui:

Parliamo invece del tuo secondo libro, “Muro contro muro”, pubblicato nel 2020 con Argento Vivo Edizioni.

In questo libro sono trattati avvenimenti storici molto importanti e forti, come la caduta del Muro di Berlino e l’11 Settembre 2001: queste situazioni fanno solo da sfondo alla trama del libro o sono da te state approfondite lungo il racconto?

Ci vuoi raccontare che cosa ti ha spinto ad occuparti di realtà storiche così forti e a riportarle in un libro?

Giorgia Amantini: Amo la storia da sempre, molti la considerano noiosa, io, invece, la trovo appassionante. Ed è stata questa mia passione a spingermi a scrivere un piccolo romanzo storico come “Muro contro muro”. In realtà, l’idea di partenza era soltanto un atto unico teatrale che poi, in scrittura, è diventato qualcosa di più, trasformandosi in un racconto che attraversava ben venticinque anni di storia internazionale.

Le situazioni narrate sono legate soprattutto ai miei ricordi: nel 1989 avevo sei anni, nel 2001 ne avevo diciotto e ho potuto assistere, come tutti, in diretta televisiva a quanto stava succedendo, con una maturità e una consapevolezza ben diverse.

E proprio i miei ricordi, legati a un approfondimento degli eventi sopra narrati, si sono fusi perfettamente con la fantasia che mi ha dato modo, attraverso i personaggi protagonisti, di far emergere proprio la storia in quanto contesto e la storia in quanto filone narrativo. Tutti sono parte di essa, la costruiscono, la vivono, la soffrono, la cambiano, la redimono.

Berlino e New York sono due momenti fondamentali per la crescita dei protagonisti, ma lo sono stati anche per quella dell’autrice che dentro vi ha messo tutto ciò che ha provato, cercando di trascinare il lettore lì con sé, rendendolo a sua volta protagonista e non solo spettatore. Per non dimenticare ciò che siamo stati e ciò che potremmo diventare.

Giorgia Amantini

Parliamo dell’inedito “L’anno che verrà”.

Tu hai vinto il “Premio Speciale della Società Romantica” al Premio Nazionale di Narrativa “Jerome Salinger” – Città di Pescara – per l’anno 2019/2020, gareggiando con l’inedito “L’anno che verrà”. 

Vuoi raccontarci qualcosa su questo libro? 
Hai già trovato una casa editrice con la quale pubblicarlo?

Giorgia Amantini: Ti ringrazio per averne fatto menzione, questa è stata la più bella soddisfazione letteraria che abbia mai avuto (pubblicazioni a parte, ovviamente). Il libro è ancora inedito ed è attualmente iscritto a un altro concorso letterario che come premio ha proprio la pubblicazione. Ci spero molto, ma anche se non dovesse succedere, continuerei comunque a puntare su questo libro con altre case editrici perché lo considero un po’ il precursore degli altri due.

Anche se svincolato nelle tematiche, “L’anno che verrà” ha posto le basi per il mio stile di scrittura. Fino ad allora, rileggendomi, mi ero sempre piaciuta poco. Qui, invece, ho scoperto di poter andare oltre, di osare (sia sintatticamente che tematicamente), di poter raccontare una storia d’amore che sfida i tempi. 


Filippo e Virginia sono due ragazzi che nel Capodanno del 1975 vivono il loro amore e che, nel Capodanno di trentacinque anni dopo, si ritrovano a dover fare i conti con ciò che la vita ha riservato loro.
Quell’anno che doveva venire in gioventù, verrà dunque trentacinque anni dopo?

Lo scopriremo solo leggendo. Spero molto presto.

Giorgia Amantini

A proposito di pubblicazioni… Ho notato che, fino ad ora, hai sempre pubblicato con case editrici.

C’è mai stato un momento in cui hai pensato di rivolgerti al self publishing?

Giorgia Amantini: Il self publishing è sempre stato nei miei pensieri, ma mi manca una sola cosa: il tempo. Forse molti non lo sanno, ma c’è un lavoro enorme dietro, dall’apertura dell’account all’impaginazione del libro, dai collegamenti tecnici a quelli pratici e per una un po’ analogica come me la percezione del tempo da impiegare raddoppia!

Quindi ti dico che, avendo una trilogia che sto finendo di scrivere nel mio famoso cassetto, il self publishing molto presto lo farò. Non so quantificare questo “presto”, ma lo farò. Anche perché lo ritengo utile e molto ben strutturato soprattutto nella distribuzione. Le grandi piattaforme, ormai, ti danno tutto il supporto possibile al riguardo e quindi, sicuramente, molto presto arriverò anche io in questo mondo.

L’Associazione Culturale Arcadialogo di Nettuno

Tu sei anche regista teatrale amatoriale.
Ci racconti qualcosa a proposito dell’Associazione?  

Giorgia Amantini: L’Associazione è un’altra grande soddisfazione della mia vita. Sono tra i soci fondatori e quando è nata, nel 2007, eravamo tutti più giovani, più incoscienti e, sicuramente, più pazzi. È stata una scommessa vinta soprattutto dal punto di vista culturale perché non abbiamo portato in scena soltanto testi teatrali conosciuti, ma anche nostre produzioni.

Non è da tutti puntare sulla qualità di scrittura dei propri membri, eppure questa associazione ha creduto sempre di dover sponsorizzare culturalmente le idee e i progetti dei propri soci, proprio per farli crescere.

Oltre al teatro, abbiamo realizzato anche alcuni cortometraggi, partecipato a eventi sociali importanti (come la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, che è un nostro grande appuntamento ormai dal 2011), concesso ai nostri soci di scrivere copioni teatrali e di rappresentarli.

Lo spirito culturale che pervade l’Arcadialogo è fortissimo e nessuno ha mai ostacolato la crescita dei propri membri. Ecco, credo che da fondatore non potevo augurarmi di meglio: ci siamo tolti tante soddisfazioni e tante ce ne toglieremo non appena tutto tornerà alla normalità. Speriamo presto.

Giorgia Amantini

Di quali spettacoli teatrali ti sei occupata, fino ad ora?

Giorgia Amantini: Come regista e attrice ho portato in scena due copioni teatrali, “Whisky, bugie e sottovesti” nel 2014 e “Shampoo a secco” nel 2015, due commedie di cui vado molto orgogliosa. Sempre nel 2015 ho curato un omaggio a Eduardo De Filippo, a Totò e alla musica napoletana portando in scena “Voce’e notte” che mi ha dato la gioia più grande che potessi desiderare da attrice amatoriale.

Inoltre, nel sociale, ho curato per la giornata internazionale contro la violenza sulle donnereading fotografici e teatrali di “Anime nel buio” nel 2011 (da cui ne ho tratto anche un corto) e di “Istantanima” nel 2012.

L’ultimo omaggio portato in scena è stato “Ciao Alda, Ciao amore” nel 2019 dedicato alla poetessa Alda Merini, legando la sua poesia con quella musicale di Luigi Tenco. Da allora, tantissimi progetti sono ancora fermi, nell’attesa di poter essere rappresentati. Grazie per avermi fatto rivivere in questo breve excursus circa dieci anni storia teatrale della mia vita! 

Ma oltre a questo, tu sei anche insegnante di Economia aziendale.

Qual è l’ambito nel quale Giorgia Amantini sente di dare il massimo di te stessa? 

Come scrittrice, come regista teatrale o nel tuo lavoro?

Giorgia Amantini: Prima ti rispondo professionalmente: do il massimo di me stessa sempre perché, come scrittrice, hai il dovere di colpire il lettore facendo in modo che lui si fidelizzi a te non solo perché ti conosce o ti stima, ma perché hai talento.

Giorgia Amantini

Come insegnante, hai in mano il destino non solo professionale ma umano dei tuoi studenti e devi guidarli passo passo a prendere coscienza di quanto valgono, perché la cultura è uno step fondamentale per renderli liberi da ogni pregiudizio o convinzione verso sé stessi e gli altri; come regista/attrice teatrale, hai il dovere di emozionarti e di far emozionare non solo il pubblico in sala, ma anche i tuoi compagni di scena, di instradarli e guidarli per raggiungere l’obiettivo finale che non è l’applauso del pubblico, ma la sua fidelizzazione.

Ora ti rispondo come donna: do il massimo di me stessa sempre, perché se non lo facessi, non mi sentirei in pace con me stessa e mi sentirei meno donna. Perché tutto ciò che faccio contribuisce alla mia identità non solo professionale, ma soprattutto personale. Sto bene quando scrivo, sto bene quando recito e dirigo, sto bene quando insegno. Sono tre dimensioni che fanno parte di me e quindi, da donna, mi migliorano e mi completano, rendendomi felice. 

Molto bene Giorgia Amantini, questa era l’ultima domanda e sono contenta di avertela fatta perché hai dato una risposta davvero ricca e densa di significato!

Grazie per averci raccontato di questa tua ricchissima esperienza!

Io ti ringrazio per essere stata con me sul mio blog… e ti auguro tanta fortuna per i tuoi prossimi libri, per i tuoi prossimi spettacoli e per il tuo lavoro! Le tre dimensioni della tua vita: tutte ugualmente importanti per te!

Giorgia Amantini: Grazie a te, di cuore.

Ma prima di salutarci, non dimenticare di lasciare qui sotto i tuoi recapiti social.

Recapiti di Giorgia Amantini

  • Dov’è possibile acquistare i libri di Giorgia Amantini: 

“Vortice”

www.amazon.it

“Muro contro muro”

www.argentovivoedizioni.it/scheda.aspx?k=muro

www.amazon.it

  • Profilo Facebook di Giorgia Amantini: 

www.facebook.com/vorticegiorgiamantini

  • Profilo Instagram di Giorgia Amantini:

www.instagram.com/giorgia1983ama

  • Sito del blog dell’Associazione Arcadialogo di cui Giorgia Amantini fa parte:

www.arcadialogo.wordpress.com

Giorgia Amantini, Giorgia Amantini

Martina Vaggi

Photo credit: Giorgia Amantini e Pixabay (https://pixabay.com)

Crescita personale

La parabola del contadino cinese: non puoi giudicare la vita da ciò che ti accade nel presente

La parabola del contadino cinese:

Molti anni fa, nelle campagne cinesi, un uomo e suo figlio vivevano in un piccolo villaggio. Essendo molto poveri: avevano solo una baracca, in cui vivevano e un campo sul quale il contadino cinese lavorava duramente tutti i giorni con il suo cavallo.

Quando il cavallo scappò, gli abitanti del villaggio andarono a trovare il contadino cinese e gli dissero a gran voce: “Il cavallo ti era utile per poter lavorare. Che sfortuna hai avuto!”.

E il contadino cinese rispose: “Forse sì, forse no. Vedremo”.

La settimana dopo, il cavallo ritornò alla baracca: assieme a lui vi erano due cavalli selvatici. Il contadino cinese e il figlio si ritrovarono quindi ad avere tre cavalli. Gli abitanti del villaggio questa volta dissero all’uomo: “Avevi un solo cavallo e ora ne hai tre. Che fortuna hai avuto!”.

Anche questa volta il contadino cinese rispose: “Forse sì, forse no. Vedremo”.

Qualche giorno dopo il figlio stava pulendo la stalla del cavallo, quando uno di loro si agitò e lo calció con forza, facendolo cadere. Il ragazzo si fece male ad una gamba. Gli abitanti del villaggio questa volta dissero al contadino cinese: “Tuo figlio è l’unico che ti può aiutare nel tuo lavoro. Che sfortuna hai avuto!”

Ancora una volta, il contadino cinese rispose: “Forse sì, forse no. Vedremo”.

Qualche settimana più tardi, alcuni soldati dell’esercito arrivarono nel villaggio e iniziarono a reclutare giovani uomini da portare a combattere in una guerra dove nutrivano poche speranze di vittoria. Quando passarono dalla casa del contadino cinese videro suo figlio con la gamba rotta e decisero quindi di passare oltre.

Gli abitanti del villaggio, una volta appresa la notizia, si rivolsero al contadino cinese: “I nostri figli vanno a morire in guerra mentre il tuo è infortunato. Che fortuna hai avuto!”

E il contadino cinese, come sempre, rispose: “Forse sì, forse no. Vedremo”.

La parabola del contadino cinese: i nostri pensieri e le nostre parole plasmano la nostra realtà

contadino cinese

Quanti di voi, dopo aver letto questa parabola del contadino cinese, l’hanno trovata illuminante? O, comunque, rivelatrice di qualcosa?

Nel leggerla, vi siete chiesti almeno una volta: “E se quel contadino cinese avesse ragione…?“.

Credo che la parabola del contadino cinese faccia riflettere.

Io ne sono venuta a conoscenza mesi fa.
Ho scelto di condividerla oggi perché questo è un periodo molto difficile per me, come credo lo sia per tutti. E credo che in un momento simile sia necessario, ora più che mai, soffermarsi su esempi positivi.

Per smetterla di stare male.
Per cercare di scorgere una luce in fondo a questo tunnel.

Credo che oggi sia facile pensare di non valere niente.
E’ facile credere di essere insignificanti in una realtà che ci vuole oppressi, chiusi in casa a lavorare: o a pensare che non troveremo mai lavoro. O a nutrire la paura di perderlo il lavoro, e di piombare in un incubo senza fine.

Credo che capiti a tutti di pensare di essere dei falliti.
Io l’ho pensato per venticinque anni filati, fino a quando non mi sono resa conto che nessuna delle persone che io avevo scelto di avere accanto (o che avevo incontrato) pensava questo di me.

Quello che voglio dire è che, a volte, siamo noi a fare tutto il lavoro.
A volte siamo noi a volerci male.
Siamo noi, con i nostri pensieri, ad influenzare negativamente la realtà che ci circonda e a plasmarla.

contadino cinese

Prendiamo questa parabola del contadino cinese, ad esempio: il leitmotiv che ricorre nel testo riguarda gli abitanti del villaggio, che, dopo ogni avvenimento accaduto al contadino commentano sempre giudicando gli eventi con un: “Che (s)fortuna che hai avuto!”.

Loro vedono una sfortuna o una fortuna, perché la loro visione della realtà, o di quel particolare problema, è negativamente assoggettata ad un perenne giudizio: ma la realtà del contadino cinese, invece, è del tutto diversa.

La parabola del contadino cinese: lascia fluire gli avvenimenti

Il contadino cinese non giudica la realtà dai singoli fatti che accadono nella vita sua e della sua famiglia.
Non giudica quel che gli succede. Anzi, in realtà, non giudica proprio nulla.
Il contadino cinese lascia fluire gli avvenimenti. Lascia che le cose avvengano.
E commenta la “(s)fortuna” che gli altri gli attribuiscono con un: “Forse si, forse no, vedremo.”

Non vi è mai capitato di guardare con distacco a momenti veramente brutti accaduti nel vostro passato?
Non vi è mai capitato di arrivare quasi a benedire il semplice fatto che vi siano successe quelle cose?
E arrivare quasi a dire: “Adesso capisco perché è successo!“.

Non vi è mai capitato di riuscire a guardare con lucidità qualcosa di negativo accaduto tempo prima e capire che quello che di negativo è accaduto è servito a rendervi ora una persona più positiva?

contadino cinese

La parabola del contadino cinese: non giudicare un avvenimento dal presente

Torniamo alla parabola del contadino cinese: è proprio il non giudizio che il contadino esercita sulla realtà, che gli consente di viverla senza nutrire aspettative su ciò che accadrà.

A volte noi carichiamo di troppe aspettative ogni cosa che facciamo.
Sembra quasi che ci risulti impossibile vivere senza.

Ma come facciamo a giudicare se un evento è positivo
o negativo per noi, se lo stiamo vivendo solo nel presente?

Forse perché ci basiamo troppo su ciò che noi vogliamo.
Abbiamo lo sguardo concentrato sullo striscione di arrivo e finiamo col perderci le straordinarie emozioni della corsa.

A corsa finita, sapremmo dire cos’abbiamo provato mentre stavamo correndo?
Saremmo in grado di descrivere la sensazione del vento sul viso, il dolore cocente dei muscoli che si sforzano, il cuore che batte a ritmo incessante nelle orecchie?

contadino cinese


Non credo. Perché per molti di noi quello che resta, arrivati alla fine di una corsa, è se hai vinto se hai perso quella gara.

Allo stesso modo, ci sono persone che definiscono altre persone dei “vincenti” o dei “perdenti”.
Vincenti.
Come se la vita fosse un gioco.

Pensiamo solo al risultato, non al lavoro che c’è dietro.
Da questo, nasce il concetto che, nella parabola del contadino cinese, gli abitanti del villaggio usano per definire la “fortuna” e “sfortuna”.

Ma noi abbiamo lo sguardo fisso sull’inquadratura di immagini e ci dimentichiamo che è il movimento della macchina da presa che crea la sequenza.
Anche se la nostra vita non è un film, è comunque tutto il lavoro del dietro le quinte che mette in scena le azioni.

La parabola del contadino cinese: vivi nel presente e guarda la vita con occhi nuovi

Forse non sempre la vita ti dà ciò che tu vuoi.
A volte, ti dona semplicemente quello di cui tu hai bisogno.

Proprio come osserviamo nella parabola del contadino cinese.

Noi non possiamo giudicare gli avvenimenti come giusti o sbagliati, sfortunati e non, perché viviamo nel presente.
Non possiamo prevedere il futuro.

L’unica cosa che possiamo fare è vivere nel presente, nel “qui e ora”.

Probabilmente, la parabola del contadino cinese vuole dirci questo: è nel modo di vedere le cose che possiamo fare la differenza tra una realtà negativa e una positiva.

La scelta è nel nostro modo di guardare la vita con occhi nuovi.
Ovviamente non è facile, soprattutto in questo momento, per tutti noi.

Ma il cambiamento non solo è possibile in ogni aspetto della nostra realtà: nella vita che affrontiamo ogni giorno, nel lavoro, nella nostra sfera di affetti.

Il cambiamento è la forza che muove ogni nostro passo.
Per questo dobbiamo fare in modo che sia positivo.

Quindi, in definitiva…

Sta a te scegliere: sei il contadino cinese o uno degli abitanti del villaggio?
Vedi la “sfortuna” anche dove non c’è? O vedi opportunità?

Giudichi continuamente la realtà per come la vedono i tuoi occhi?
Oppure, sospendi il giudizio e ti limiti a dire come disse il contadino cinese:

Forse si. Forse no. Vedremo.

Martina Vaggi

Photo credit: https://pixabay.com

Pensieri sulla pandemia

Sopravvivere ad una realtà in declino: la continua ricerca di se stessi

Sta diventando difficile questa realtà.
Forse per alcuni lo è sempre stato, per altri inizia ad esserlo ora.
Questa vita così poco “sociale” e “socievole”, alla quale ci siamo abituati. 
Queste abitudini malsane che abbiamo acquisito in questo anno, non per volontà nostra.

Il lavoro che viene tolto così, come se non valesse niente. 
Come se fosse solo un giocattolo che si sono stufati di regalarci.

La realtà di oggi: la perdita completa del controllo

Non abbiamo accesso al controllo.
Non possiamo decidere noi quando e come questa situazione finirà.
Non possiamo cambiare la situazione esterna.

E questa situazione che noi non possiamo controllare alla fine sta controllando noi.

Quando incontrai la Signora T. per la prima volta (ne parlo nel mio libro) stavo passando un brutto momento. Non potevo fare nulla per cambiare la situazione esterna e quindi la subivo, ci stavo molto male.

Sono passati due anni da quel momento, ma ricordo ancora quali furono le parole che mi disse:

“Non puoi cambiare la realtà: non puoi cambiare le altre persone. E non è nemmeno tuo dovere farlo. Tu puoi cambiare te stessa, se lo vuoi. Facendo questo, anche le cose esterne cambieranno.”

Immagino che non tutti possano credere o comprendere un discorso simile. 
Anche io avevo i miei dubbi. Fino a quando non mi sono resa conto che aveva ragione lei.
Fino a quando non ho capito il vero significato di quella frase.

Se cambi il tuo modo di vedere le cose e la realtà, acquisirai un punto di vista completamente diverso. 

A quel punto tutto ti sembrerà diverso.
Ti sembrerà che la realtà esterna sia cambiata
ma non sarà così: avrai solo cambiato modo di osservarla.

Questo esempio si applica bene alla realtà di oggi.

Ovviamente noi non possiamo controllare il Covid.
Nessuno di noi può gestire gli eventi esterni.
Ma possiamo mettere ordine sulla realtà dentro di noi.
Possiamo fare tutto quello che è in nostro potere e nelle nostre capacità per migliorare la nostra situazione.

Gestire i pensieri per gestire la realtà

Noi abbiamo una responsabilità, la più importante di tutte.

La responsabilità di gestire i nostri pensieri. 

Abbiamo una possibilità: quella di poter scegliere con cura i nostri pensieri, ogni giorno.

Un pensiero, coltivato ogni giorno, produce un risultato, che, con il tempo, diventa una realtà.
La nostra realtà, quella in cui viviamo, tutti i giorni.

Sta a noi scegliere se sia positiva o negativa.
Sta a noi decidere se la nostra realtà sarà un enorme prato in cui correre o una prigione in cui rinchiuderci.

La realtà di oggi è traumatica. 
Decisamente frustrante. Decisamente demotivante. 
Veramente, veramente triste.

Quindi? Che cosa è in nostro potere fare?

realtà

Imparare da una realtà in declino

Vi è mai capitato di ritrovarvi senza un soldo, eppure di sentirvi la persona più ricca del mondo?
Vi è mai capitato di non avere un lavoro eppure di riuscire comunque a tenere per mano la speranza?
Vi è mai capitato non avere una prospettiva di futuro, eppure… di riuscire a cogliere la bellezza, inafferrabile, del presente? 

A me è successo.
Non sto dicendo che vi auguro che vi capiti.

Dico solamente che è dalle situazioni peggiori che impariamo le lezioni più importanti.

E quando questo avviene, se tu riesci a cogliere quei momenti, se riesci a vederli, puoi imparare qualcosa che ti porterai dietro per sempre.

Quando è successo a me, anni fa, ho capito una cosa. 

Spesso noi tendiamo a dividere le persone in due categorie: persone negative e persone positive. 
Forse un po’ di genetica c’è anche in questo o forse ha ragione la “Legge dell’attrazione” (i pensieri diventano cose, ecc.).
O forse… siamo noi che decidiamo chi vogliamo essere. 

Quando è successo a me ho capito che le persone non possono essere divise in due categorie: perché tra le persone negative e quelle positive c’è uno spazio enorme, aperto, dove circolano tutti coloro che ancora non hanno capito bene da che parte stare.

Come avviene il cambiamento della nostra realtà

Ad un certo punto mi sono accorta che avevo passato vent’anni a rimproverarmi di qualsiasi cosa e ad addossarmi qualsiasi colpa.
E a cosa mi era servito?
Avevo passato del tempo con persone che mi avevano sempre criticato.
E a cosa mi era servito?

Era servito a cercare una persona che mi aiutasse a cambiare la mia realtà
Era servito a capire che a volte non possiamo farcela da soli.
Che il cambiamento, per quanto possa spaventare e fare paura, per quanto possa portarti a soffrire, conduce, inevitabilmente, anche a qualcosa di buono.

Ci vogliono anni, forse. 
Ma, alla fine, inizi a diventare il cambiamento che vorresti vedere negli altri.

Quando scegli di non vedere sempre il lato negativo.
Quando capisci che essere negativi con se stessi non ti porta da nessuna parte.
Che nessuno ottiene dei risultati se continua a darsi del “cretino”. 

Ci vuole del tempo. 

Ma la più grande conquista che tu possa ottenere durante questo percorso arriva quando inizi ad occuparti di te. 

Quando smetti di guardare gli altri, di paragonarti a loro.

Loro hanno la loro realtà: tu hai la tua.

E non vuoi più cambiarli, perché sai che non puoi. Non funziona così.
Quando inizia a ricercare la tua approvazione. 
Non quella degli altri. 

Agli altri non importa nulla di te.
Ed è giusto che sia così. 

Martina Vaggi

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Pensieri sulla pandemia

Essere all’altezza di un mondo che vuole sempre di più

Ci sono persone al mondo che non si sentono mai di essere all’altezza di nulla.
Ce ne sono altre, poi, che non sanno chi sono né si pongono il problema.

Trovano la propria strada: la percorrono fino in fondo e poi un giorno si svegliano e si rendono conto che non era ciò che volevano.

Ma è tardi per tornare indietro.

Ci sono persone che si guardano dentro per una vita intera nel tentativo di capire chi sono davvero.
Guardano dentro al loro mondo, quel baratro infinito e ci si buttano senza paracadute.
Ma è pericoloso guardarsi dentro se non sei pronto ad accettare le due parti.

La luce e il buio.

Se ti guardi dentro troppo a lungo, rischi di non riemergere più. 

essere all'altezza

Essere all’altezza di se stessi quando l’esterno cambia

Per alcuni di noi, accettare se stessi è la cosa più difficile.
Accettare di non essere sempre così buoni.
Accettare di non riuscire sempre a gestirsi. Di non riuscire a restare dentro quelle fottute righe dove ogni persona viene delimitata, catalogata, controllata. 
Sono righe sottili che ti inquadrano in una forma geometrica dove tu dovresti riuscire a stare, a vivere. 

Hai uno spazio e dovresti riuscire a fartelo bastare.

Per alcuni di noi è difficile.
È difficile accettare di non riuscire a trovare un posto che ti appartenga e al quale tu possa appartenere. 
E ci provi ad adeguarti, ci provi davvero ma il mondo invade il tuo spazio con le sue regole e i suoi problemi e tu senti di non avere un posto. 
Non vedi di fronte a te una direzione, un percorso da seguire. 

Per alcuni di noi è davvero difficile.
È difficile accettare che non saremo mai abbastanza per un mondo che vuole sempre di più.

essere all'altezza

Essere all’altezza di tutto: difficoltà del vivere nel mondo odierno

Questo mondo in cui viviamo oggi non aiuta nel ricercare una propria stabilità.
Che essa sia economica, sentimentale, personale.
Questo mondo è sempre più complicato.

Non ti consente di avere una “apparente” tranquillità.
Se non fosse che, come viene spesso detto, la serenità dovremmo essere in grado di trovarla noi.

Dentro ognuno di noi. Non al di fuori.

Questa tematica mi fa venire in mente un libro che ho letto anni fa, in un momento molto buio della storia dell’umanità.

Questo libro si chiama “Come vivere felici in un mondo imperfetto: ritrovare la chiave che conduce all’amore e alla pace“.
In questo libro straordinario le parole del Dalai Lama stimolano a ritrovare la consapevolezza per poter vivere sereni e in pace con se stessi, seppur in un mondo tutt’altro che semplice.

Lo potete trovare qui, su Amazon.
Vi lascio il link, in caso foste anche voi alla ricerca di un po’ di serenità interiore e di tregua da questo mondo.

Dicevamo…

Questo mondo che ambia con molta velocità: è veramente difficile stargli dietro.
Questo mondo che sembra impoverirsi di valori, sempre più.
Come se quasi non fossero mai esistiti.

La costante che ci accomuna sembra essere il vivere nella paura.

Viviamo costantemente nella paura di un futuro
perché siamo incapaci, forse, di vivere il nostro presente.

Essere all’altezza dei cambiamenti: vivere nella paura di un mondo peggiore

L’unica certezza è il costante mutamento a cui tutti siamo destinati.
Ci aggrappiamo ad un mondo che sembra non volerci ma che pretende da noi sempre qualcosa in più.

Viviamo sospesi.
A volte incapaci di muoverci.
Ora che tutto si è fermato, ora che questa realtà si è trasformata e ci sta trasformando, sembra ancora più difficile ripartire.

essere all'altezza

E questo tempo incerto prende da te ciò che tu lasci prendere.
Distrugge le poche certezze.
Ti scava dentro se tu glielo permetti. 
Ti costringe ad ancorarti al presente quando tu vorresti nutrire speranze per il futuro.

Questo tempo presente che viviamo ognuno in maniera diversa, in fondo, forse opprime tutti noi.
Insinua domande e dubbi. 
Ti costringe a guardare anche se tu vorresti coprirti gli occhi e non vedere tutte quelle domande che pretendono la tua attenzione.

Ce la farò a trovare lavoro?
Sarò in grado di evolvermi a tal punto da non sentire più il dolore?
Riuscirò a guardare altrove, a fingere di non soffrire per tutto questo?

Riuscirò mai ad essere all’altezza per un mondo che vuole sempre di più?

essere all’altezza essere all’altezza essere all’altezza essere all’altezza essere all’altezza essere all’altezza essere all’altezza

Martina Vaggi

Photo credit: https://pixabay.com

Autori emergenti

Raccogliere storie e testimonianze, un diario di quarantena ft. Martina Vaggi

Gabriele Glinni intervista Martina Vaggi sul libro “Il diario del silenzio – Storie reali di quarantena”. Trovi l’intervista pubblicata su “Pillole di Folklore” qui.

Bentrovati a tutti! La scrittrice Martina Vaggi, durante il periodo della quarantena, si è dedicata a un bellissimo lavoro. La sua opera, “ll diario del silenziostorie reali di quarantena” contiene cinquanta racconti (basati su storie reali) che riguardano il primo lockdown.
Trovando il suo lavoro molto interessante, desideravo esplorarlo più in dettaglio. Dunque benvenuta Martina, e grazie per la tua partecipazione!

Ecco la mia prima curiosità.

Cosa ti ha spinta ad approcciarti a questo genere di lavoro, ossia, raccogliere le testimonianze di 50 persone, elaborandole in forma di racconto?

Ciao Gabriele, innanzitutto ti ringrazio per avermi ritagliato questo bellissimo spazio. 
Quello che mi ha spinto a iniziare questa raccolta di testimonianze è stata la voglia di raccontare, di dare una testimonianza scritta, di ciò che tutti noi, in un modo o nell’altro, abbiamo vissuto in questo momento storico molto difficile e traumatico.

Volevo raccogliere testimonianze di varie persone, di vari settori di lavoro e di come avessero affrontato la situazione nei mesi del primo lockdown.

Martina Vaggi

Per questo motivo, ho deciso di occuparmi non solo delle persone comuni (ossia di quelle persone che, come me, avevano vissuto il lockdown in casa, in una routine di ansia e paura) ma di allargare questa ricerca a vari settori lavorativi.

Così ho cercato persone che avessero lavorato a stretto contatto con questa realtà, come gli infermieri, i medici, gli operatori sanitari: ho ascoltato gli insegnanti, che avevano lavorato da casa con la didattica a distanza, e gli studenti, che avevano risentito di questo brusco cambiamento trovandosi senza punti di riferimento.

Poi ho ascoltato gli imprenditori, quelli che avevano chiuso l’azienda e gli altri che avevano continuato a lavorare, nonostante le enormi difficoltà. I dipendenti e il lavoro in smartworking. Gli psicologi, gli educatori, coloro che avevano cercato di aiutare, anche se a distanza: i volontari della protezione civile, che portavano a casa beni di prima necessità a chi era più a rischio. 

Queste e tante altre storie, tante altre realtà.

Per ogni persona che ascoltavo io costruivo una storia, un racconto, cercando di mettermi nei panni di quella persona e di raccontare ciò che lei aveva visto con i suoi occhi: ogni racconto inizia con una data, con un luogo e una regione e con la dicitura “Quarantena, giorno…”.

In questo modo ho potuto tenere il conto dei giorni di lockdown che abbiamo vissuto. Ho strutturato il libro come se fosse un diario, cercando di dare una panoramica generale di come l’Italia avesse affrontato quel momento storico. 

Pur essendo un libro che racconta molto il dolore, la sofferenza vissuta, ho cercato in realtà di trasmettere anche speranza, positività: molte di queste persone che ho ascoltato, infatti, sono state in grado di reagire a questa situazione, portando anche molti esempi positivi che era giusto trasmettere.

Martina Vaggi

Per tornare alla domanda che mi hai fatto, aggiungerei anche questo: avendo io vissuto il lockdown chiusa in casa, non avevo potuto essere di aiuto a nessuno. Credo che sia stato anche questo a spingermi a dar vita a questo libro: la voglia di dare qualcosa.

Trasmettere tutti i sacrifici, gli sforzi che molte persone avevano compiuto in quel momento per adattarsi a questa nuova realtà, a questo enorme cambiamento.

Andiamo più nello specifico.

Ci sono state delle storie in particolare che ti hanno colpita, rattristita o ispirata, in fase di stesura?

Citane pure alcune liberamente!

Tra le storie che ho raccontato, quella che più mi ha colpita nella sua particolarità e stata quella riguardante un sacerdote e la sua opera di volontariato nei reparti Covid. Quando ho ascoltato questa persona, lui mi ha raccontato di un episodio accaduto durante un turno notturno in reparto.

C’è questo frammento di storia, in cui lui incontra nei corridoi dell’ospedale un medico: da questo incontro nasce un momento di profonda umanità. Il medico si ferma di fronte al sacerdote, lo riconosce nel suo ruolo (grazie alla croce di legno che portava sopra alla tuta, la stessa che indossavano gli operatori sanitari) e in un momento di silenzio, di profondo dolore, gli prende la mano e se la porta sulla testa.

I due rimangono così, uniti in quel momento di preghiera.

Martina Vaggi

Quando lui mi ha raccontato questa scena, mi è sembrato di vederla nella mia mente, come se fosse un film.
Il suo racconto si intitola “Il prete volontario” ed è quello che, tutt’ora, mi commuove di più. 

Ci sono dettagli nelle storie, come per esempio nomi reali o riferimenti, a cui devi fare attenzione o che devi trattare in modo specifico, con dovuto riguardo?

Ho preferito usare nomi fittizi per raccontare le storie di queste persone. Solo in alcuni casi ho mantenuto il loro vero nome e cognome, in quanto i protagonisti di queste storie mi hanno dato un consenso firmato ad usare la loro vera identità.

Per tutti gli altri, i nomi sono inventati, li ho scelti io. Come se fossero personaggi creati e non reali.
Anche per quanto riguarda gli ospedali: non ho usato i nomi delle strutture.

Martina Vaggi

Se stavo scrivendo di un racconto ambientato in un ospedale di provincia, non citavo né il nome dell’ospedale né la provincia. Lo indicavo semplicemente con il nome della regione. Ad esempio: “Ospedale in Piemonte”.

In che modo hai cercato persone disponibili a narrare le loro storie? Hai in seguito mantenuto qualche racconto?

Le prime persone che ho ascoltato sono state persone vicine a me o conoscenti. Altre persone sono state proprio loro a trovarle: diciamo che il “passaparola” ha aiutato molto, in questo caso.
Io avevo le idee chiare su chi volevo ascoltare: ad esempio, ho cercato a lungo una persona di Bergamo e alla fine sono riuscita a trovare una persona di Nembro, il paesino focolaio dell’epidemia nella bergamasca.

Martina Vaggi

Volevo anche una persona del Veneto, che mi raccontasse come la regione avesse vissuto la situazione. Poi mi sono mossa nel cercare anche persone del sud Italia: è stato interessante osservare come, almeno in un primo momento, loro avessero vissuto la situazione di riflesso, “subendo” anche psicologicamente ciò che stava accadendo al nord Italia, dalle immagini che vedevano nei telegiornali. 

Ogni volta che ascoltavo una persona, accadeva che fosse lei a dirmi: “Sai che anche un mio amico ha vissuto una determinata situazione mentre era in quarantena”. In questo modo, non è stato difficile “costruire” una rete di persone disposte a raccontarsi.

Ho visto in molte persone la voglia di raccontare le proprie storie.

Questo è veramente molto bello, Martina.
Noi ricordiamo che il libro di Martina Vaggi “Il diario del silenzio” lo potete trovare su Amazon e vi lasciamo qui il link:

Ora una domanda di più amplio respiro.

Cosa ti ha avvicinata alla scrittura? Qual è stato il tuo percorso, e cosa consiglieresti a chi si avvicina per la prima volta a tale hobby?

Io scrivo da sempre. Ho sempre avuto questa esigenza.

L’esigenza di esprimere la moltitudine di pensieri che affollano la mia mente o di raccontare ciò che vedo tramite le mie esperienze o le storie degli altri. 

Per questo scopo, nel 2015, ho creato il mio blog “Pensieri surreali di gente comune”. Successivamente sono nate le pagine Facebook e Instagram collegate al blog.

Durante il lockdown tenevo una sorta di “diario pubblico” su queste pagine, dove pubblicavo post in cui indicavo il giorno di quarantena e il mio pensiero sul giorno trascorso o sui sentimenti che provavo e “vedevo” espressi anche da altri. Da qui è nata l’impostazione del libro “Il diario del silenzioStorie reali di quarantena”.

Negli anni precedenti alla nascita del blog e del libro, ho studiato Lettere Moderne all’Università di Pavia, mi sono laureata che già scrivevo su giornali cartacei e digitali a tempo pieno. Purtroppo, non percependo un compenso, una volta laureata non ho più avuto la possibilità di continuare: avevo, ovviamente, bisogno di un lavoro che mi desse la possibilità di mantenermi. 

Martina Vaggi

Così ho svolto diversi lavori: mi sono adattata ma non ho mai smesso di scrivere. 
Credo che sia questo il “consiglio” che potrei dare a chi, come me, si ritrova ad avere una “capacità” che non è molto remunerativa: di continuare a provare, di continuare a scrivere, di cercare una strada per poterlo fare, un giorno, come lavoro. 

Io non so se riuscirò mai a vivere solamente di scrittura ma sicuramente continuerò a provarci.

Grazie di cuore per la tua partecipazione, Martina! Siamo stati felici di ospitarti, e di parlare di una tematica così particolare e interessante.
Abbiamo inoltre piacere di includere i tuoi lavori e i tuoi link social:

Grazie a te per questa bellissima esperienza.


“Il diario del silenzio – Storie reali di quarantena” di Martina Vaggi su Amazon: https://lnkd.in/dcmdkqe

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