Riflessioni

Premi il pulsante rosso

il mondo dei replicanti

Credo di sapere dove questa strada mi sta portando, ma in fondo non lo so.
Credo di essere abbastanza sicura di ciò che voglio ma, se mi soffermo un secondo su una situazione che sto vivendo io perdo l’equilibrio e mi ci immergo profondamente.
E non sono contenta fino a quando non mi sono immersa del tutto.
Devo toccare il fondo con i piedi, ne ho bisogno, altrimenti non riesco a darmi la giusta spinta per poter risalire.
Altrimenti rischio di affondare.
Credo di poter dire, oramai, di conoscere a fondo le persone: di essere in grado di capirle con uno sguardo, che mi basti solo l’apparenza per comprendere che, nel profondo, nessuno è poi così diverso. Sembriamo esseri semplici ma non lo siamo per niente.
Ogni persona è un mondo, un mistero, un pianeta sconosciuto su cui vorremmo abitare.
Credo di poter dire che conosco a fondo la paura, quella di non essere accettata, quella di non essere ben vista, o di non essere vista per quella che sono in realtà.
Ma la verità è che conosco bene il rammarico, quello verso me stessa e la mia tremenda voglia di farmi accettare da una realtà in cui non mi trovo più bene a stare.
Credevo di aver perso la fede.
Credevo di non avere più fiducia nelle persone.
Non so quand’è successo che l’ho persa.
So solo che un giorno mi sono svegliata e non ho visto altro che opportunismo: falsità, egoismo. Quel giorno mi sono detta: “E’ tutto qui? Davvero è tutto qui?”.
Ma come fa ad essere tutto qui?
Credevo di non aver più fiducia nelle persone. Ma la verità è che nel momento stesso in cui non ne volevo più sapere niente di loro, è nata in me la voglia di saperne di più. Di conoscere a fondo. Di capire perché una persona si comporta in un modo, piuttosto che in un altro. Di comprendere perché abbiamo bisogno di farci così tanto male a vicenda, di vivere tutto come una competizione che ci porta alla rovina.
Di capire perché abbiamo così dannatamente bisogno di distruggerci a vicenda.
E ho iniziato a non fermarmi solo a ciò che vedo. A guardare le cose più da vicino, cercando non tanto la verità quanto il buono.
Il buono che c’è in ogni persona.
Perché, in fondo, non siamo poi così diversi da una macchina: ognuno di noi ha un tasto, quello giusto che, se premuto, innesca una reazione e poi un’altra e poi un’altra.
Basta solo sapere dov’è quel tasto, cercarlo e, infine… premerlo.

Martina Vaggi

Photo credit: https://www.youtube.com/watch?v=0T7isP62pdU
Riflessioni

Il tuo posto nel mondo

depositphotos_65550275-stock-video-footprints-in-the-sand-at

E’ come una sensazione sotto pelle che non ti abbandona mai.
Si fa presente al mattino, appena apri gli occhi. In quel momento la avverti.
Si manifesta e si fa strada nei tuoi pensieri.
Rimani a guardare il soffitto per minuti, che a volte sembrano ore.
Poi ti alzi e inizi la giornata. E non ci pensi.
La seppellisci in profondità dentro di te. Come tutto quello che senti e che hai imparato a non manifestare davanti a chi non può capire i sentimenti o le emozioni.
Si disgrega tra il lavoro, la compagnia di altre persone, le ore passate al di fuori, gli impegni quotidiani sui libri.
Ma non se ne va, e forse non se ne andrà mai.

Ma è sempre lì ad aspettarti ad ogni risveglio. Lieve, leggera ma incisiva, va dritta in profondità.
La tristezza.
E’ sempre lì accanto a te quando apri gli occhi. Assieme a quella sensazione di vuoto, che per un istante ti fa dire: “Cosa sto facendo?”.
Si dice che abbiamo due vite e che iniziamo davvero a vivere quando realizziamo per quale scopo siamo nati.
Allora la tristezza significherebbe sentirsi come se ancora non avessimo capito qual è il nostro posto nel mondo.
Ma se tu avessi già capito qual è il tuo scopo in questa vita e non riuscissi a realizzarlo?
Forse la tristezza che provi è anche questo.
Forse è così che ci sentiamo quando non stiamo facendo ciò per cui siamo nati, non stiamo adempiendo al nostro scopo su questa terra.

Forse è un modo per la nostra mente di spingerci a provare un’altra via, ancora un’altra, pur di mantener vivo quel sogno, pur di volerlo rincorrere ancora, fino a quando c’è ancora vita per poterlo fare.
Forse non lo raggiungeremo mai e la tristezza allora non se ne andrà.
Ma possiamo davvero correre il rischio di non provarci?

Martina Vaggi

Photo credit: https://it.depositphotos.com
Riflessioni

La nave sta affondando, abbandonate la nave!

89be38780a7dbf9dd723c85bab3e3619

Si dice che tutti dovremmo avere una vita vista mare.
Ma chi lo dice, probabilmente non ha mai avuto l’occasione di abitare in un tranquillo e pacifico posticino di campagna.
Non so chi fu il primo a scrivere questa frase, né ho ancora capito cosa significhi: per me il mare ha sempre rappresentato un oscuro contenitore di creature mostruose, nel quale è preferibile inabissarsi solo in acque poco profonde, possibilmente prossime alla riva.
Per quello che mi ricordo, almeno. Non vedo il mare da un bel po’.
C’è una cosa, però, che ricordo. Il mare fa riflettere. Ti aiuta a rilassare la mente, e, qualche volta, se sei fortunato, anche a riordinare i pensieri.
Quando ero più piccola (e frequentavo il mare molto più di ora) ricordo che sedevo lì, sullo scoglio più alto di quella spiaggia dove io e mamma andavamo sempre. Mi mettevo lì seduta con quel bikini colorato che faceva da contrasto a un’abbronzatura da 8 ore di sole non-stop. Stavo lì e guardavo il mare per ore.
Ma avrei potuto tranquillamente guardarlo anche per giorni.
Vedevo le onde infrangersi contro gli scogli, poi ritirarsi, prendere di nuovo la rincorsa, e, di nuovo, infrangersi con più forza di prima. Certo, l’epilogo era sempre quello, per loro: però io ammiravo la forza con cui l’onda ripeteva quel gesto e andava a morire lì dov’era destinata.
Forse è un po’ tutto destinato. Tutto ci viene dato in natura e dalla natura e, contro questa legge naturale, appunto, nessuno di noi può far nulla. Non possiamo lottare, ma non possiamo nemmeno arrenderci, dal momento che quella in cui viviamo e la nostra vita. Forse possiamo essere un po’ come quelle onde che ripetono, ogni secondo e ogni giorno, la stessa azione.
Ma se la vita ci stesse dando quello di cui abbiamo bisogno ma non quello che noi vorremmo davvero, noi come potremmo mai saperlo? Se la nostra vita stesse andando alla deriva, come una nave che affonda, di notte, senza alcuna luce, come potremmo noi sapere se intorno ci sono scogli a cui aggrapparsi o se tutto quanto è destinato a finire… lì?
Nessuno sa. Così come il capitano del Titanic non vide quell’iceberg, così non possiamo vedere noi più in là dei nostri stessi pensieri.
Siamo come bottiglie di vetro in balia delle onde, con un bel messaggio infiocchettato che magari nessuno leggerà mai.
In quelle ore in cui sedevo sugli scogli, il mare era capace di calmare la mia mente. Ma, a pensarci bene, non c’era poi molto da calmare.
Se oggi mi sedessi sugli stessi scogli a guardare nello stesso punto, non riconoscerei nulla. Né il mare, né la spiaggia, probabilmente non ricorderei nemmeno nulla delle cose successe lì. Non riuscirei a ricordare neppure me stessa.
E se guardassi al mare per avere un po’ di conforto… Non basterebbe nemmeno l’oceano a calmare il casino che ho in testa.
Ma al mare ci guarderei comunque. Guarderei a quelle onde così fiere e maestose e sarei fiera di loro e del loro continuo lottare.
Perché guardare loro sarebbe un po’ come guardare me stessa.
E se la nave davvero è destinata ad affondare… Beh, per il momento non si può sapere.
Ad oggi non è ancora affondata ma… sicuramente ha iniziato ad imbarcare un bel po’ d’acqua!

Martina Vaggi

Riflessioni

“Benvenuto nel mondo vero”

matrixpillola

Comincio a essere esausta.
Ho delle difficoltà nel capire come il mondo sia arrivato ad essere quello che è ora. Manca un filo conduttore che lega la creazione dell’uomo (da due corpi nudi e in pace, tentati da un serpente e una mela) a quello che l’uomo è diventato oggi. Come se mancasse un enorme pezzo di storia a questa trama avvincente: quell’enorme pezzo di fondamentale importanza in cui tutta la trama si è sviluppata.
È un po’ come se l’uomo ci avesse preso gusto a mangiare quella mela e fosse diventato lui il serpente.
Non riesco a spiegarmi come ogni persona che incontriamo si possa dimostrare sempre più deludente di un’altra, come se il mondo avesse creato dei robot tutti uguali tra loro e l’unica alternativa a coloro che robot non sono sia quella di diventarlo, per annullare quel dolore che deriva dall’essere diversi.
Non capisco come possa essere rimasta così poca umanità nelle persone. La stessa umanità che ti spinge a tendere una mano verso una persona, nonostante ti abbia fatto soffrire in passato. Come se tendere una mano oggi significhi aspettarsi uno schiaffo in risposta.
All’apparenza siamo persone. Persone che si devono muovere al ritmo inumano di una macchina, persone che pensano solo al profitto, a essere ogni giorno più abile nel riuscire a fregarti. Condividiamo la casa con altre persone come noi, con cui viviamo per anni e anni senza mai dedicare loro veramente il tempo per conoscerli per poi, una volta che non ci sono più, piangere il tempo che avevamo per non averli vissuti appieno.
Eppure abbiamo un sacco di tempo a disposizione per godere delle persone che viviamo ogni giorno. Perché non lo sfruttiamo mai abbastanza?
Perché ci risulta molto più facile piangere la scomparsa di una persona piuttosto che vivere la sua presenza?
Una delle cose che ho imparato in questi anni è che sono le persone a salvarti nei momenti di difficoltà: da tutto, anche da te stesso. Le persone e lo straordinario amore che le lega.
Ma noi ci comportiamo come delle macchine. È un po’ come se vivessimo in un Matrix reale, dove lo spinotto non è attaccato ad uno strumento di elaborazione immagini ma ad un social. Viviamo la nostra vita sui social tanto che, ormai, la nostra vita è diventata un social.
E quindi postiamo foto per avere gli apprezzamenti di altri, perché non siamo più in grado di apprezzarci da soli. Abbiamo bisogno di mille amici, perché non sappiamo apprezzare quelli che abbiamo in realtà, là fuori, nel mondo reale.
Ci riconosciamo in frasi che altri dicono pensando di essere gli unici al mondo al quale possano riferirsi e approfittiamo di ogni occasione per scaricare su altri la nostra rabbia, la nostra frustrazione. Come se non fossimo in grado di conoscerci, criticarci, assumerci delle responsabilità.
Come l’umiltà fosse una cosa che non ci appartiene più.
Non siamo più in grado di chiedere scusa, di perdonare, di guardarci allo specchio e ripartire da lì. Sempre da lì.
E quindi gli altri diventano i nostri nemici, la nostra nemesi per l’eccellenza. Gli altri meritano il nostro disprezzo, il nostro odio verso se stessi che dobbiamo vomitare per forza su qualcuno.
Che questi altri provino anche loro dei sentimenti, quello non ci tocca più di tanto: che questi altri stiano affrontando la vita e un mondo sotterraneo di problemi e difficoltà, quello non interessa a nessuno. Ognuno pensa di essere nel giusto, di essere unico nel suo genere, come se non facesse nemmeno parte di una specie. Ognuno pensa di avere il diritto di calpestare qualcun altro, anche solo per la rabbia che prova verso se stesso.
Come l’uomo che calpesta un insetto: non si fa venire i rimorsi per averlo fatto, d’altronde, era solo un insetto, no?
Hanno tutti qualcosa da dimostrare: il problema è che, quel qualcosa, non è mai niente di buono.
Tutto questo perché è successo?
Perché determinati valori sono spariti? Perché non siamo più in grado di coesistere?
Perché tutto questo diverte determinate persone, mentre a me viene la nausea solo ad osservare tutta questa indifferenza.
Tutti questi occhi che guardano ma non ti vedono mai davvero.
Tutte queste mani che sfiorano ma non riescono mai a sentire il tuo dolore.
Tutto questo senza che ci fosse stata data alcuna scelta. Nessuna pillola rossa per entrare nella tana del bianconiglio. Semplicemente, il mondo è cambiato a una velocità non prevista, non calcolata nella maniera corretta e ognuno di noi ha cercato di adeguarsi.
Solo i più forti sopravvivono al cambiamento proprio perché non si oppongono ma lo assecondano, si modellano a seconda della situazione e si adeguano.
Ma adeguarsi non può voler dire diventare come loro.

Martina Vaggi

Photo credit: https://scirocconews.com/2015/07/20/il-nostro-mare-la-pillola-azzurra-offerta-da-morpheus-in-matrix-tutte-le-verita-nascoste-per-opportunita-turistiche/
Riflessioni

Solo noi e altri 7 miliardi come noi

marcia

In questo mondo in continuo mutamento, è inevitabile per ognuno di noi fare degli incontri.
Siamo più di 7 miliardi di persone in un mondo che ci appare gigantesco e, allo stesso tempo, molto… familiare. Così conosciamo degli sconosciuti, ed è del tutto naturale per noi incontrarli, magari amarli oppure odiarli. La maggior parte di loro ci passa accanto senza nemmeno sfiorarci: come se la loro vita non ci riguardasse e non sentissimo di avere nulla in comune con loro. È in questo atteggiamento di puro e profondo egoismo che cresciamo tutti i giorni e tutti i giorni viviamo sulla nostra pelle un sentimento che cresce senza che nemmeno ce ne accorgiamo: l’indifferenza.
La pura indifferenza verso chiunque altro non sia noi o non faccia parte del nostro piccolo mondo. Un oceano di persone, con diversi interessi, lavori, amori, hobby, accomunati tutti da un’unica condizione: quella di essere esseri umani.
Eppure quante volte ci dimentichiamo di questo? Quante volte ci comportiamo come se esistessimo solo noi e non altri 7 miliardi come noi?
E in questo clima dilagante di rigida indifferenza non è un caso che costruire dei rapporti sia diventato sempre più difficile. Non è un caso che la parola “Io” venga sempre prima del “Noi” e che, pur avendo costruito un rapporto solido, non lo si possa mai veramente dare per scontato. Diventa sempre più difficile accettare di essere solo delle persone, convivere con i propri sbagli e le proprie debolezze.
Diventa sempre più difficile immergersi in se stessi, imparare a conoscersi, a volersi bene sul serio: perché oggi ognuno di noi evita questo confronto?
Forse, abbiamo semplicemente paura che, se ci immergessimo nel nostro oceano di difetti, errori, frasi dette al momento sbagliato e altre mai pronunciate, finiremmo con l’affogare.

Ma buttarsi di getto nell’oceano può insegnarti a nuotare. A conoscere te stessa e, di conseguenza, anche gli altri.
Forse non avremmo veramente bisogno di fare del male, o di subirlo, se fossimo a posto con noi stessi. Che fare del male ad un’altra persona è tutto ciò che di umano non è.

In questi ultimi anni ho iniziato a guardare meglio ciò che avevo davanti agli occhi e ciò che avevo perso. Ho rivalutato persone, situazioni finite male e altre ancora finite bene. Ho iniziato a cercare ciò che volevo e non quello che non potevo avere. Che ognuno di noi, in fondo, non cerca ciò che vuole il suo cuore ma ciò di cui ha bisogno la sua anima per poter guarire e credere ancora in qualcosa di straordinario.

E mentre le persone continuavano a criticare me, o chiunque altro, e a vivere secondo il proprio egoismo e ad osservare la tua vita altrui come se fosse un piccolo esperimento andato male, io osservavo loro. Mentre molti di loro continuavano a vivere la loro vita come se fossero unici, io mi ritrovavo, pian piano, anno dopo anno, ad abbandonare questo pensiero e iniziavo ad immergermi tra la gente, ad osservare il comportamento dei passanti, in metropolitana, per strada, in città come in paese. I gesti d’amore di una madre verso il figlio che ancora deve crescere, l’uomo d’affari che cammina in centro a Milano e sbraita ordini al telefono, urlando affinché tutti nelle vicinanze possano sentire quanto è potente, un uomo che bacia sua moglie sul tram: il barbone coricato sull’asfalto freddo che si sente morto per il mondo.
Ma nonostante la mia diffidenza verso il genere umano cresca a dismisura, io non posso fare a meno di rifugiarmi in una nicchia, quel nascondiglio segreto dal quale osservo il mondo cambiare, come se nemmeno ne facessi parte. Lo osservo in quel piccolo spazio di umanità, perché è in quel piccolo spazio che sono veramente libera.
La nostra umanità è la cosa più preziosa che abbiamo, eppure la svendiamo così facilmente tutti i giorni per fare spazio all’odio, al rancore verso cose passate e all’ansia di un futuro lontano che non possiamo vedere.
Calpestiamo noi stessi e, di conseguenza, anche gli altri e per cosa?
Per sembrare più forti, senza accorgerci che siamo ancora più deboli.
Per avere l’ultima parola, quella maledetta ultima parola, come se fossimo attori all’ultimo atto di una commedia con un unico obbiettivo: ottenere un applauso finale.
Tutto per soddisfare un ego che serva a nascondere chi siamo veramente.
Tutto per una maschera che indossiamo, l’ennesima.
Tutto pur di non ammettere di avere un problema, o forse milioni.
Tutto questo, una messinscena architettata dal migliore dei registi, pur di non ammettere quanto faccia paura affidarci a qualcuno.
È la cosa che più ci spaventa al mondo ma è anche la più straordinaria.
Poter toccare un altro essere umano, poterlo abbracciare fino a diventare uno soltanto, essere in grado di assorbire il suo dolore e farlo tuo. Condividere momenti che fermino il tempo e ci rendano consapevoli di che cosa voglia dire vivere davvero.
Non bisognerebbe mai dimenticarsi delle persone: solo le persone, alla fine, quelle che ti salvano davvero.
Ognuno di noi è un mondo incredibile da scoprire e la cosa più straordinaria è riuscire a farne parte.

Martina Vaggi

Photo credit: https://www.ilpost.it/2018/06/24/persone-per-cambiare-mondo/
Riflessioni

C’è del bianco tra i miei ricordi

dav

Dicembre è sempre stato il mio mese preferito.
Fin da quando ero più piccola, niente al mondo per me batteva il momento del Natale. Il mese del Natale come io lo ricordo, come momento di condivisione, un riunirsi tutti assieme in un giorno felice.
Dicembre è il mese delle lucine colorate, dell’albero verde messo al centro della sala e addobbato. Ho sempre adorato fare l’albero di natale.
Dicembre è il mese dei compleanni, delle cene, il mese in cui tutto il mondo si ferma per un secondo di fronte ai regali sotto l’albero, le persone felici all’interno dei negozi, il tempo che rallenta quando cade un fiocco di neve e poi un altro e poi un altro e tutto il paesaggio diventa bianco.
Anche tra i miei ricordi ora c’è del bianco. Non c’è traccia di neve per terra, ma tra i miei ricordi è tutto bianco.
Questo sarà il secondo Natale che non passeremo tutti assieme.
Tante cose nel frattempo sono cambiate.
Dicembre ora è il mese delle spese, dei problemi che diventano insormontabili e della profonda nostalgia verso un futuro che sogno come migliore del presente.
Le persone all’interno dei negozi non mi sembrano più felici ma ancora più incazzati di quanto non lo siano tutti i giorni, imbottiti nel traffico che segna l’inizio del via vai per la corsa ai regali, gli spintoni all’interno dei negozi, la fretta lungo le vie affollate.
Dicembre è il mese in cui al telegiornale senti di qualcuno che si è buttato giù dal terzo piano perché non aveva più nessuno accanto.
Credo che ci si debba sentire così, a Natale, quando hai perso tutto.
Forse esistono due tipi di Natale per due tipi di persone: quelle che hanno ancora qualcuno con cui festeggiarlo, come una vera famiglia riunita in festa, e quelli che non hanno più nulla a cui aggrapparsi se non un passato pieno di ricordi.
Natale ora è il giorno dell’assenza.
Il giorno in cui mio papà corre in ospedale alla vigilia per stare vicino a mio zio, il giorno dei parenti sentiti per telefono, a distanza, quella distanza che non riesce a colmare un vuoto che c’è.
Domani sarà Natale e tutto ciò che conta per me, se Dio vuole, sarà seduto attorno a quel tavolo che mia mamma ha già apparecchiato.
Non posso dire di avere la vita che avevo progettato, a stento a volte mi sembra perfino di vivere, ma posso dire che sto facendo del mio meglio per cercare di adattare la mia mente a quello che accadrà e che già sto vivendo.
Forse arriva per tutti un momento in cui bisogna lasciare da parte la vita che abbiamo voluto, preteso con tanta ingordigia, senza neanche sapere se veramente era quello che meritavamo, e fare un po’ di posto alla vita che ci è stata destinata.
Tutto qui. Non ci sono giri di valzer, nessuna sviolinata di circostanza sul vero senso del Natale.
C’è solo assenza che si può toccare con mano e quel dolore che fa crescere, che ti spinge a guardare più avanti.
Non so quand’è successo che sono cresciuta, ma è accaduto all’improvviso.
E ora so che da certe consapevolezze non si torna più indietro.

Martina Vaggi

Riflessioni

Sono sempre l’ultima a svegliarmi al mattino a casa mia.
Questo significa che non ho quasi mai possibilità di scelta sulle brioche che ci sono a tavola.
Questo significa anche che papà cercherà di mangiare quella più buona, mentre mamma cercherà di essere più veloce per tenerla da parte per me.

 

2-colazione-italiana

Riflessioni

Cara nonna, non ci siamo presentate…

depositphotos_14879037-stock-photo-hands-of-grandmother-and-grandchild

Cara nonna,

ti scrivo adesso e non so perché ho aspettato così tanto per farlo.
Non ho mai potuto parlare con te e l’unico modo che ho di farlo ora è di scriverti.
Sono passati più di vent’anni da quando te ne sei andata.
All’epoca dovevo avere non più di quattro anni, eppure non ho ricordi del poco tempo che abbiamo trascorso insieme. E, se mi sforzo di ricordare, l’unica memoria che ho è di un’ombra sfocata china sopra di me.
E tutt’ora non so se è un sogno oppure realtà.
Papà mi ha parlato di te qualche volta. Non tantissimo, in realtà.
Mi ha raccontato di te e del nonno. Mi ha detto di com’era umile il nonno e di com’eri buona tu.
Parla sempre di te come se fossi un’anima preziosa e candida e forse è davvero così. A me piace molto immaginarti così.
Ho sentito sempre parlare di te per tutti questi anni ma non credo che la vita ci abbia mai presentate ufficialmente.
Io sono Martina e tu sei Adelina. Io sono tua nipote e tu sei mia nonna.
Sai nonna, io penso che la famiglia sia ciò che più ci lega al mondo, pur trovandoci in posti diversi o dimensioni diverse. Credo sia un po’ come una sensazione di calore sotto pelle che ti riscalda fin dentro le ossa e non se ne va mai via davvero.
Un amore che lascia una cicatrice indelebile, un po’ come quel tatuaggio che ho all’interno del braccio e che porta il tuo nome e quello della mia nonna materna.
Tu sei la nonna che non ho mai conosciuto, la nonna che tanto desiderava avere una femmina e che, ironia della sorte, ha avuto tre maschi. E poi ne ha avuti altri quattro dai suoi tre figli e poi… poi sono arrivata io.
Papà mi ha raccontato che, quando ti hanno annunciato la mia nascita, hai pianto. Quel giorno papà ti ha detto che era arrivato il momento di donare quella bambola, quella che tu tenevi per quell’occasione. Era una bambola veramente grossa (e anche un po’ inquietante, se devo dirla tutta): mia mamma me l’ha mostrata una volta, quando aveva ancora il negozio di vestiti. Mi ha portato in soffitta e me l’ha fatta vedere.
Ho visto il cofanetto che mi hai lasciato e il biglietto. Metto il tuo braccialetto qualche volta, solo nelle occasioni veramente speciali però: è troppo prezioso e importante per portarlo a spasso sempre.
Volevi tanto una femmina ma la vita ti ha strappato via da quella bambina senza neanche darti il tempo di godertela ancora un po’.
Ad oggi, quando vedo Bianca e la mamma assieme, mi capita di immaginare come devono essere stati quei momenti quando io ero piccola e tu eri la mia nonna.
Anche tu mi tenevi in braccio?
Anche tu mi baciavi la fronte e forse mi dicevi che ero bella? La più bella bambina del mondo per te.
E mi cantavi la ninna-nanna. Questo me lo ricordo.
Papà mi ha raccontato di quei giorni. Di quando mi portavano da te, a Pieve, e poi mi venivano a prendere. E tu eri felice.

Mi ha detto anche che il tuo sogno era quello di fare l’infermiera ma che allora era ritenuto un lavoro poco serio e nessuno ti ha permesso di farlo.
Quando ci penso sorrido, con amarezza, perché… è un po’ anche la storia della mia vita, no?
Ma tu già sai.
Mi hanno raccontato del brutto male che ha colpito prima il nonno e poi te.
Quel poco che so di te, di voi, mi è stato sempre e solo raccontato.
Ho guardato le vostre foto, qualche volta. Il tuo viso fragile, le tue braccia magre. I tuoi occhi timidi.
E’ una strana sensazione, quella di vivere pensando a te con amarezza, rimpianto.
E’ strano pensare con malinconia ad una persona che non hai mai conosciuto e riuscire comunque a sentirne la mancanza.
Non ci siamo presentate, nonna, ma forse un giorno lo faremo.
Forse un giorno ci siederemo assieme, ci guarderemo negli occhi e ci racconteremo di una vita intera.
Forse lo faremo e magari è vero ciò che si dice della vita dopo la morte: che qualcosa, la parte più importante e preziosa di noi, resta oltre il corpo e va’ avanti nel suo cammino.
Ma questo lo puoi sapere soltanto tu.

Sai, è da più di dieci anni che non posso più pronunciare la parola “Nonna”.
Ma in tutto questo tempo, quella parola non me la sono mai dimenticata.

Ancora tua, Martina.

Photo credit : https://it.depositphotos.com/14879037/stock-photo-hands-of-grandmother-and-grandchild.html
Riflessioni

Quella sincera voglia di dare

o-DIVORCE-FRIENDS-facebook

Il problema dell’avere a che fare con le persone forti è che nessuno si aspetta mai di vederle cadere. Nessuno sospetta mai che possano avere un tracollo.
E quando questo si manifesta, la gente è solita dire cose come: “Non me lo sarei mai aspettato da lei”.
Quando, in realtà, la debolezza è la caratteristica più comune e naturale dell’essere umano. E’ che ci si dimentica spesso di essere delle persone umane. Ci si dimentica di come non conti solo il nostro nome, i nostri difetti, le nostre esigenze, quanto anche quelle degli altri. Ci si dimentica di quanto ogni persona abbia in comune i più basilari e naturali sentimenti di felicità, sofferenza… solitudine.
Così una persona forte viene sempre un po’ data per scontata. Ed è un po’ anche per questo che, forse, impara a risolversi i propri problemi per conto suo. Impara a non chiedere una mano e, quando ha bisogno di aiuto, a cercarla alla base del suo braccio. Impara a creare le proprie regole e a vivere seguendo quelle.
Impara anche a chiudersi in se stessa. E questa è la parte peggiore.
Un atteggiamento controproducente, perché da molte persone viene visto come un sintomo di menefreghismo verso gli altri. E’ ci sono momenti – che quando arrivano, sembrano durare una vita – in cui senti che non hai più molto da dare, anche se non è così.
Senti che non riesci a dire, a raccontare, tutto ciò che sta succedendo, tutto il caos, la confusione che invade la tua mente e non la lascia in pace. In quei momenti hai bisogno di pensare solo a risolvere quei problemi e, semplicemente, non hai spazio per altro.
E’ in quei momenti che vorresti dire: “Non riesco a risolvere i miei casini, come posso farlo con i tuoi?
Ma non lo fai. Sorridi e vai avanti. Sorvoli e vai avanti. Ti metti addosso una maschera, sì, quella che tutti vogliono vedere, e non te la togli fino a quando non sei a casa.
La verità è che non tutti possono capire le tue situazioni se prima non ci passano loro. Come puoi spiegare un attacco di panico a chi non l’ha mai vissuto? Come puoi spiegare la paura, che ormai è diventata la costante della tua vita, di non essere mai abbastanza forte per quello che verrà. Come fai a spiegare che tutto questo è già abbastanza per te e non ne vuoi di più, davvero. Vorresti solo avere la mente sgombra e fantasticare su quanto di bello deve ancora venire.
Come puoi spiegare tutto questo?
E se lo dovessi spiegare, che cosa pretenderesti in cambio?
Non puoi pretendere, non puoi aspettarti nulla.
Una prima cosa che ho imparato in quest’ultimo anno è questa: ognuno di noi è solo. Anche se non lo è realmente, anche se è circondato da molte persone, è solo e lo è per davvero quando si tratta di vivere la propria vita, camminare con le sue gambe, tracciare la propria strada, convivere con se stessi e con le proprie scelte (e questa è la parte più difficile). Guardarsi allo specchio ogni giorno e vedere come la vita sia in grado di cambiarti, scoprire nuove ferite e nasconderle, perché quelle le devi vedere solo tu. Riuscire a trovare ogni lato nascosto di te e pensare: riuscirò mai a convivere con tutti i difetti che ho? E di tutti i pregi e le qualità che vedo che cosa ne farò?
La seconda cosa che ho imparato in questo periodo poi è che non tutti riescono a vederti davvero.
E questo, sia chiaro, non è una loro colpa. Specialmente se tu sei una di quelle persone che tendono a non mostrare mai debolezze.
Molti semplicemente si fermano a quello che mostri e a loro va bene così. Tutte le volte che stai in silenzio tu, vedono l’occasione per parlare sempre e solo dei loro problemi. Qualche volta ti buttano lì un “Tutto bene?” di circostanza, di noncuranza, come se questo ti potesse mai veramente bastare.
Non sono per le vie di mezzo, anche se ci provo. Il fatto è che ad un “Tutto bene?”, buttato lì tanto per fare gossip, preferisco quasi uno schiaffo. Preferisco essere messa all’angolo e sentirmi dire “Cosa ti sta succedendo?”. Perché quello esprime qualcosa. Questo è ciò che dici quando vuoi bene a qualcuno e vedi qualcosa che non va in lui. Ma non è detto che tutti lo vedano. Non è neanche detto che tutti vogliano veramente vederlo.
E’ che, semplicemente, a volte ci fa comodo fingere di non vedere. Ci dà la scusa giusta per poter pensare alla nostra vita senza sentirci in dovere verso qualcuno.
Poi ci sono anche persone che invece ti vedono realmente. Persone che ci provano nonostante i loro problemi, nonostante i se, i mai, e tutti gli why e because. Persone che, forse, in tutti questi anni, hanno imparato a conoscerti meglio di quanto tu conosci te stessa.
Persone che ti guardano da lontano, ti scrutano, come se cercassero di scavarti dentro e di capire il perché. Semplicemente il perché.
Se alle prime non do colpe (ho smesso di portare rancore da quando ho capito che faceva del male solo a me) nelle seconde vedo qualcosa che per me è fondamentale. Vedo la consapevolezza di non essere mai davvero sola. Vedo quello sguardo e mi ci aggrappo e torno di nuovo a credere in questa sincera voglia di dare che vedo in te e che, ogni giorno, cerco di non perdere in me.

Martina Vaggi