Crescita personale

Recruiter e candidati: la mancanza d’empatia e la ricerca del feedback perduto

Chiunque frequenti LinkedIn ha modo di osservare la presenza costante di post tra loro simili o con un leitmotiv abbastanza ricorrente.
Uno di questi riguarda i dibattiti sui recruiter e candidati.

Spesso, infatti, mi capita di osservare post in cui:

  • recruiter si lamentano di candidati e di colloqui
  • candidati si lamentano di non trovare lavoro o di non avere nemmeno un feedback da parte dei recruiter.

L’altro giorno su LinkedIn mi sono imbattuta in un post di una recruiter in cui veniva messo in luce il “conflitto” tra queste due parti.

Recruiter e candidati: vittime e carnefici

Nel contemporaneo panorama di offerta/ricerca di lavoro, lei rilevava come spesso i recruiter venissero etichettati come carnefici e i candidati come vittime.
Lei rilevava anche come questo creasse talvolta degli schieramenti tra le due parti.

A questo proposito, è nata in me una riflessione.

Viviamo in un momento difficile.
Lo sappiamo.

Viviamo in un mondo che si è impoverito di valori umani.
Credo che tutti possiamo essere d’accordo su questo.

Se parliamo di persone, possiamo dire che è difficile trovare onestà?
Possiamo affermare che, in molti settori sia difficile trovare ancora gentilezza? 
Non impossibile. Semplicemente più difficile di prima.

Possiamo essere certi che sia molto più facile trovare frustrazione, rifiuto della realtà.
Modi per lamentarsi e lamentarsi ancora.

Di questo, i social sono sempre stati terreno fertile.

Recruiter e candidati

La ricerca di lavoro e i feedback: recruiter e candidati a confronto

Oggi è difficile trovare lavoro
Non che un tempo fosse facile.

Però oggi la ricerca di lavoro appare essere molto più impegnativa: spesso si dice, infatti, che cercare lavoro sia, a tutti gli effetti, un lavoro.

Il fatto di cercare lavoro e di non trovarlo genera nel candidato già una buona dose di frustrazione, ovviamente.

Ma non solo.
Oggi sappiamo che è anche difficile avere anche solo un feedback, una risposta (anche negativa) ad una propria candidatura di lavoro.

A me è capitato circa un mese fa.
Ho inviato una candidatura e, dopo pochi giorni, ho ricevuto un feedback negativo.
Sono rimasta a tal punto stupita dal fatto di aver ricevuto anche solo un riscontro, che ho risposto alla mail, ringraziando la recruiter di avermi dato il feedback.

In pratica, ho ringraziato per aver ricevuto una risposta negativa.

Rende bene la situazione in cui ci troviamo oggi, credo.

Purtroppo la scusante del “momento difficile” o del “periodo Coronavirus”, in questo caso, non regge: io mandavo molte candidature anche prima di trovare lavoro (anno 2013-15) e anche in quegli anni di feedback se ne ricevevano ben pochi. 
Quindi escluderei il fattore “pandemia” dai motivi per i quali ben pochi di noi ricevono feedback alle proprie candidature.

Ma io non sono una recruiter.
Partiamo da questo.

Recruiter e candidati

E non ho idea di quante candidature possa ricevere un recruiter oggigiorno: immagino moltissime. 
Non è difficile da pensare, no?

La mancanza di feedback

Adesso cerco di guardare la questione da una diversa angolazione.

Da candidata io non ho mai condiviso la mancanza di feedback
Personalmente, credo che una risposta sia sempre doveroso darla.

Non condivido l’atteggiamento di un’azienda che non risponde ad una candidatura, ad una proposta, ad un progetto. 
Ma questa è solo la mia opinione.

Recruiter e candidati

Il punto è questo: io non so se, onestamente, al posto loro sarei in grado di fare meglio. 
Nessuno di noi può saperlo, fino a quando non si ritrova ad essere al posto di una persona (o di un ruolo) che sta giudicando. 

Ora provo a guardare la situazione da un altro punto di vista ancora.

La mancanza di empatia e le sue conseguenze

L’empatia ormai sembra essere una “specie” in via d’estinzione.

Lo possiamo osservare in tutti gli aspetti della vita quotidiana, anche in questa questione recruiter/candidati.

Gli uni non si mettono nei panni degli altri.
Si formano incomprensioni, discussioni sterili.
Si delineano due fazioni, che raccolgono idee contrapposte.

Di solito non è così facile trovare persone disposte a mettersi nei panni dell’altro, anche perché è anche vero che non tutti sono in grado di farlo.
Ma ascoltare e porre domande è l’unico modo per conoscere veramente una persona, un ruolo e creare così un ponte d’accesso per riuscire a vestire i suoi panni.

A questo proposito, mi viene in mente una frase che ho letto giorni fa, di Henry Ford

Il segreto del successo nella vita, se ne esiste uno, risiede nella capacità di comprendere il punto di vista dell’altro  e vedere le cose attraverso i suoi occhi”.

Recruiter e candidati

Imparare a lasciare fluire le situazioni: tra recruiter e candidati di chi è la responsabilità?

C’è poi un’altra questione da considerare, ancora più difficile da realizzare, forse, perché di natura più “spirituale”.

A volte sarebbe necessario lasciar fluire le situazioni e le persone dalla nostra vita.
Sarebbe opportuno fare il proprio percorso, senza imporsi su quello degli altri.
Senza occuparsi minimamente di quello degli altri.

In altre parole: dare senza pretendere.
Senza pretendere che gli altri capiscano o ti restituiscano quello che hai dato.

In altre parole ancora: se mandi un curriculum e non ti viene dato feedback, quello non è un tuo problema.
Nel senso che tu non puoi lavorarci su. Non puoi gestirlo, non puoi risolverlo.

Questo perché il modo in cui tu ti poni è una tua responsabilità.
Le azioni che fai, i gesti che compi.
Il modo in cui gli altri rispondono (o meno) è una loro responsabilità.

Non è tuo (nostro) compito occuparcene.

Il compito di un candidato

Il tuo compito (il mio compito) come candidato è andare avanti nella ricerca di un proprio percorso di crescita. E di lavoro.

Questa è solo la mia opinione, ovviamente.

Recruiter e candidati

Non sto dicendo che è bello non avere una risposta: non lo è.
Come non è bello essere sempre, perennemente, scartati dai recruiter e dal mondo del lavoro.

O sentirsi ogni giorno svalutati.
Niente di tutto questo è bello.

Ma essere sempre incazzati con il mondo è peggio.

Senza contare poi che lamentarsi impegna energia, tempo, bruciore di stomaco, bile…
Non rende una bella immagine, vero?

Tutto questo per dire che: non ha senso intasare i social lamentandosi continuamente.
Non ha senso cercare sempre un colpevole, laddove non c’è.

Ma soprattutto: non ha assolutamente senso alimentare la propria frustrazione.
E ne so qualcosa, purtroppo.
È una via a senso unico che ti porta solo a sprecare le tue risorse.

Perché se del feedback non pervenuto di un recruiter ti liberi spegnendo il computer, della tua rabbia non ti liberi nemmeno quando chiudi gli occhi la sera.

Martina Vaggi

Photo credit: https://pixabay.com

recruiter e candidati, recruiter e candidati

Autori emergenti

Giorgia Amantini: 10 domande all’autrice di ‘Vortice’ e ‘Muro contro Muro’

Un caro saluto ai lettori del mio blog!
Per questa nuova rubrica di collaborazioni intitolata “10 domande all’autore“, ad opera di “Pensieri surreali di gente comune”, abbiamo come ospite quest’oggi Giorgia Amantini, autrice emergente di due libri e regista teatrale per l’associazione culturale Arcadialogo di Nettuno.

Partiamo subito con le domande all’autrice.

Innanzitutto, saluto Giorgia Amantini e le do il benvenuto sul mio blog!

Iniziamo subito parlando di te e del tuo percorso: tu sei laureata in Management, economia, finanza e diritto d’impresa. Vedendo il percorso di studi da te intrapreso, mi viene da subito la curiosità di farti questa prima domanda.

Quand’è che ti sei avvicinata alla scrittura? 

Giorgia Amantini: Ciao Martina e grazie per avermi ospitato sul tuo blog, sono molto felice che tu mi abbia dato la possibilità di potermi esprimere e far conoscere ai tuoi lettori. Sì, a prima vista riesce difficile credere, vedendo il mio percorso di studi, che possa essermi dedicata alla scrittura. Ma questa passione l’ho scoperta quando avevo 17 anni, in seguito a un evento personale molto doloroso che ha dato modo di far esplodere tutto quello che avevo dentro proprio attraverso la scrittura medesima.

Giorgia Amantini

Amo la letteratura da sempre, ma la scrittura è qualcosa a cui mi sono avvicinata in giovane età anche grazie all’esperienza teatrale amatoriale, che mi ha permesso, poi, di spaziare e di affinare tecnicamente il mio modo di scrivere.

Scrivere sempre per poter scrivere sempre meglio.

E io la faccio, ormai, da vent’anni. Sperando di migliorare giorno dopo giorno.

Qual è stato il momento decisivo che ti ha spinto a pensare: “Voglio provarci: voglio pubblicare un libro”?

Giorgia Amantini: È stato un momento molto particolare, anche perché arrivato in ritardo rispetto a quando lo avevo sognato. Contando che la mia prima pubblicazione risale al 2018, si può capire quanto sia stata insicura e spaventata nel buttarmi a voler proporre un mio inedito a una casa editrice. Ciò che mi ha spinto a farlo è stata sicuramente una consapevolezza maggiore di me stessa.

Sai, a volte non sempre diamo a noi stessi il rispetto che meritiamo, diamo sempre importanza ad altro, facendolo diventare per necessità la nostra priorità.

Ecco, posso dire che in un momento non molto positivo che stavo vivendo nel 2018, sono riuscita a trovare la forza per dire basta e per dedicarmi finalmente a ciò che desideravo. È stato un tentativo che poi è riuscito, è scattato qualcosa dentro di me forse legato alla voglia di voler finalmente esprimere la mia interiorità, fino ad allora nascosta nei numerosi inediti che ho nel mio cassetto. E da lì, non mi sono più fermata.

Parliamo proprio del 2018, l’anno in cui hai pubblicato il libro “Vortice”, edito da Albatros Il Filo.

Potresti raccontarci di cosa parla il libro “Vortice”?

Giorgia Amantini: “Vortice” ha nel titolo tutto ciò che esprime. I sentimenti dei protagonisti, tutti anonimi, tutti quasi surreali, tutti legati alla loro inesorabile vita/non vita, ti trascinano nel vortice delle loro sensazioni più profonde e segrete. Soprattutto la mia Lei, una donna che non hai mai compreso fino in fondo di essere tale fino a quando non incontra in circostanze molto particolari questo Lui imperfetto, ma umano.

Vortice” è un monologo introspettivo dove ognuno si può riconoscere nei suoi tormenti personali. Non c’è spazio, non c’è tempo, non ci sono riferimenti: c’è solo un momento, un istante che si dilata nella storia diventando “la storia”, un momento che però cambierà per sempre la vita dei protagonisti, portandoli finalmente a scegliere di essere liberi. Nel bene e nel male.

Giorgia Amantini

Leggendo la sinossi, appare chiaro che si tratta di un’avvincente storia dai toni cupi e dai forti colpi di scena. Ma un aspetto mi ha incuriosita molto.

In “Vortice” c’è di mezzo anche una storia d’amore?

Puoi svelarci qualcosa, sotto questo aspetto?

Giorgia Amantini: Posso dirti che questa storia d’amore di cui parli, non è una storia d’amore convenzionale. Lei e Lui si amano, ma non di quel sentimento passionale e fisico che tutti conosciamo e raccontiamo, ma di un sentimento umano.

Entrambi, durante il loro incontro forzato, scoprono solidarietà, dolcezza, comprensione, come se quel momento che stanno vivendo li possa far redimere dal loro essere/non essere. Come se fino ad allora non avessero mai vissuto veramente, prigionieri di sé stessi: è nel loro conoscersi che trovano finalmente la chiave della propria libertà.

Ci sono dei momenti nel romanzo che fanno capire proprio questo, momenti molto profondi, ma sempre fortemente introspettivi.

Il libro su Amazon lo potete trovate qui:

Parliamo invece del tuo secondo libro, “Muro contro muro”, pubblicato nel 2020 con Argento Vivo Edizioni.

In questo libro sono trattati avvenimenti storici molto importanti e forti, come la caduta del Muro di Berlino e l’11 Settembre 2001: queste situazioni fanno solo da sfondo alla trama del libro o sono da te state approfondite lungo il racconto?

Ci vuoi raccontare che cosa ti ha spinto ad occuparti di realtà storiche così forti e a riportarle in un libro?

Giorgia Amantini: Amo la storia da sempre, molti la considerano noiosa, io, invece, la trovo appassionante. Ed è stata questa mia passione a spingermi a scrivere un piccolo romanzo storico come “Muro contro muro”. In realtà, l’idea di partenza era soltanto un atto unico teatrale che poi, in scrittura, è diventato qualcosa di più, trasformandosi in un racconto che attraversava ben venticinque anni di storia internazionale.

Le situazioni narrate sono legate soprattutto ai miei ricordi: nel 1989 avevo sei anni, nel 2001 ne avevo diciotto e ho potuto assistere, come tutti, in diretta televisiva a quanto stava succedendo, con una maturità e una consapevolezza ben diverse.

E proprio i miei ricordi, legati a un approfondimento degli eventi sopra narrati, si sono fusi perfettamente con la fantasia che mi ha dato modo, attraverso i personaggi protagonisti, di far emergere proprio la storia in quanto contesto e la storia in quanto filone narrativo. Tutti sono parte di essa, la costruiscono, la vivono, la soffrono, la cambiano, la redimono.

Berlino e New York sono due momenti fondamentali per la crescita dei protagonisti, ma lo sono stati anche per quella dell’autrice che dentro vi ha messo tutto ciò che ha provato, cercando di trascinare il lettore lì con sé, rendendolo a sua volta protagonista e non solo spettatore. Per non dimenticare ciò che siamo stati e ciò che potremmo diventare.

Giorgia Amantini

Parliamo dell’inedito “L’anno che verrà”.

Tu hai vinto il “Premio Speciale della Società Romantica” al Premio Nazionale di Narrativa “Jerome Salinger” – Città di Pescara – per l’anno 2019/2020, gareggiando con l’inedito “L’anno che verrà”. 

Vuoi raccontarci qualcosa su questo libro? 
Hai già trovato una casa editrice con la quale pubblicarlo?

Giorgia Amantini: Ti ringrazio per averne fatto menzione, questa è stata la più bella soddisfazione letteraria che abbia mai avuto (pubblicazioni a parte, ovviamente). Il libro è ancora inedito ed è attualmente iscritto a un altro concorso letterario che come premio ha proprio la pubblicazione. Ci spero molto, ma anche se non dovesse succedere, continuerei comunque a puntare su questo libro con altre case editrici perché lo considero un po’ il precursore degli altri due.

Anche se svincolato nelle tematiche, “L’anno che verrà” ha posto le basi per il mio stile di scrittura. Fino ad allora, rileggendomi, mi ero sempre piaciuta poco. Qui, invece, ho scoperto di poter andare oltre, di osare (sia sintatticamente che tematicamente), di poter raccontare una storia d’amore che sfida i tempi. 


Filippo e Virginia sono due ragazzi che nel Capodanno del 1975 vivono il loro amore e che, nel Capodanno di trentacinque anni dopo, si ritrovano a dover fare i conti con ciò che la vita ha riservato loro.
Quell’anno che doveva venire in gioventù, verrà dunque trentacinque anni dopo?

Lo scopriremo solo leggendo. Spero molto presto.

Giorgia Amantini

A proposito di pubblicazioni… Ho notato che, fino ad ora, hai sempre pubblicato con case editrici.

C’è mai stato un momento in cui hai pensato di rivolgerti al self publishing?

Giorgia Amantini: Il self publishing è sempre stato nei miei pensieri, ma mi manca una sola cosa: il tempo. Forse molti non lo sanno, ma c’è un lavoro enorme dietro, dall’apertura dell’account all’impaginazione del libro, dai collegamenti tecnici a quelli pratici e per una un po’ analogica come me la percezione del tempo da impiegare raddoppia!

Quindi ti dico che, avendo una trilogia che sto finendo di scrivere nel mio famoso cassetto, il self publishing molto presto lo farò. Non so quantificare questo “presto”, ma lo farò. Anche perché lo ritengo utile e molto ben strutturato soprattutto nella distribuzione. Le grandi piattaforme, ormai, ti danno tutto il supporto possibile al riguardo e quindi, sicuramente, molto presto arriverò anche io in questo mondo.

L’Associazione Culturale Arcadialogo di Nettuno

Tu sei anche regista teatrale amatoriale.
Ci racconti qualcosa a proposito dell’Associazione?  

Giorgia Amantini: L’Associazione è un’altra grande soddisfazione della mia vita. Sono tra i soci fondatori e quando è nata, nel 2007, eravamo tutti più giovani, più incoscienti e, sicuramente, più pazzi. È stata una scommessa vinta soprattutto dal punto di vista culturale perché non abbiamo portato in scena soltanto testi teatrali conosciuti, ma anche nostre produzioni.

Non è da tutti puntare sulla qualità di scrittura dei propri membri, eppure questa associazione ha creduto sempre di dover sponsorizzare culturalmente le idee e i progetti dei propri soci, proprio per farli crescere.

Oltre al teatro, abbiamo realizzato anche alcuni cortometraggi, partecipato a eventi sociali importanti (come la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, che è un nostro grande appuntamento ormai dal 2011), concesso ai nostri soci di scrivere copioni teatrali e di rappresentarli.

Lo spirito culturale che pervade l’Arcadialogo è fortissimo e nessuno ha mai ostacolato la crescita dei propri membri. Ecco, credo che da fondatore non potevo augurarmi di meglio: ci siamo tolti tante soddisfazioni e tante ce ne toglieremo non appena tutto tornerà alla normalità. Speriamo presto.

Giorgia Amantini

Di quali spettacoli teatrali ti sei occupata, fino ad ora?

Giorgia Amantini: Come regista e attrice ho portato in scena due copioni teatrali, “Whisky, bugie e sottovesti” nel 2014 e “Shampoo a secco” nel 2015, due commedie di cui vado molto orgogliosa. Sempre nel 2015 ho curato un omaggio a Eduardo De Filippo, a Totò e alla musica napoletana portando in scena “Voce’e notte” che mi ha dato la gioia più grande che potessi desiderare da attrice amatoriale.

Inoltre, nel sociale, ho curato per la giornata internazionale contro la violenza sulle donnereading fotografici e teatrali di “Anime nel buio” nel 2011 (da cui ne ho tratto anche un corto) e di “Istantanima” nel 2012.

L’ultimo omaggio portato in scena è stato “Ciao Alda, Ciao amore” nel 2019 dedicato alla poetessa Alda Merini, legando la sua poesia con quella musicale di Luigi Tenco. Da allora, tantissimi progetti sono ancora fermi, nell’attesa di poter essere rappresentati. Grazie per avermi fatto rivivere in questo breve excursus circa dieci anni storia teatrale della mia vita! 

Ma oltre a questo, tu sei anche insegnante di Economia aziendale.

Qual è l’ambito nel quale Giorgia Amantini sente di dare il massimo di te stessa? 

Come scrittrice, come regista teatrale o nel tuo lavoro?

Giorgia Amantini: Prima ti rispondo professionalmente: do il massimo di me stessa sempre perché, come scrittrice, hai il dovere di colpire il lettore facendo in modo che lui si fidelizzi a te non solo perché ti conosce o ti stima, ma perché hai talento.

Giorgia Amantini

Come insegnante, hai in mano il destino non solo professionale ma umano dei tuoi studenti e devi guidarli passo passo a prendere coscienza di quanto valgono, perché la cultura è uno step fondamentale per renderli liberi da ogni pregiudizio o convinzione verso sé stessi e gli altri; come regista/attrice teatrale, hai il dovere di emozionarti e di far emozionare non solo il pubblico in sala, ma anche i tuoi compagni di scena, di instradarli e guidarli per raggiungere l’obiettivo finale che non è l’applauso del pubblico, ma la sua fidelizzazione.

Ora ti rispondo come donna: do il massimo di me stessa sempre, perché se non lo facessi, non mi sentirei in pace con me stessa e mi sentirei meno donna. Perché tutto ciò che faccio contribuisce alla mia identità non solo professionale, ma soprattutto personale. Sto bene quando scrivo, sto bene quando recito e dirigo, sto bene quando insegno. Sono tre dimensioni che fanno parte di me e quindi, da donna, mi migliorano e mi completano, rendendomi felice. 

Molto bene Giorgia Amantini, questa era l’ultima domanda e sono contenta di avertela fatta perché hai dato una risposta davvero ricca e densa di significato!

Grazie per averci raccontato di questa tua ricchissima esperienza!

Io ti ringrazio per essere stata con me sul mio blog… e ti auguro tanta fortuna per i tuoi prossimi libri, per i tuoi prossimi spettacoli e per il tuo lavoro! Le tre dimensioni della tua vita: tutte ugualmente importanti per te!

Giorgia Amantini: Grazie a te, di cuore.

Ma prima di salutarci, non dimenticare di lasciare qui sotto i tuoi recapiti social.

Recapiti di Giorgia Amantini

  • Dov’è possibile acquistare i libri di Giorgia Amantini: 

“Vortice”

www.amazon.it

“Muro contro muro”

www.argentovivoedizioni.it/scheda.aspx?k=muro

www.amazon.it

  • Profilo Facebook di Giorgia Amantini: 

www.facebook.com/vorticegiorgiamantini

  • Profilo Instagram di Giorgia Amantini:

www.instagram.com/giorgia1983ama

  • Sito del blog dell’Associazione Arcadialogo di cui Giorgia Amantini fa parte:

www.arcadialogo.wordpress.com

Giorgia Amantini, Giorgia Amantini

Martina Vaggi

Photo credit: Giorgia Amantini e Pixabay (https://pixabay.com)

Crescita personale

La parabola del contadino cinese: non puoi giudicare la vita da ciò che ti accade nel presente

La parabola del contadino cinese:

Molti anni fa, nelle campagne cinesi, un uomo e suo figlio vivevano in un piccolo villaggio. Essendo molto poveri: avevano solo una baracca, in cui vivevano e un campo sul quale il contadino cinese lavorava duramente tutti i giorni con il suo cavallo.

Quando il cavallo scappò, gli abitanti del villaggio andarono a trovare il contadino cinese e gli dissero a gran voce: “Il cavallo ti era utile per poter lavorare. Che sfortuna hai avuto!”.

E il contadino cinese rispose: “Forse sì, forse no. Vedremo”.

La settimana dopo, il cavallo ritornò alla baracca: assieme a lui vi erano due cavalli selvatici. Il contadino cinese e il figlio si ritrovarono quindi ad avere tre cavalli. Gli abitanti del villaggio questa volta dissero all’uomo: “Avevi un solo cavallo e ora ne hai tre. Che fortuna hai avuto!”.

Anche questa volta il contadino cinese rispose: “Forse sì, forse no. Vedremo”.

Qualche giorno dopo il figlio stava pulendo la stalla del cavallo, quando uno di loro si agitò e lo calció con forza, facendolo cadere. Il ragazzo si fece male ad una gamba. Gli abitanti del villaggio questa volta dissero al contadino cinese: “Tuo figlio è l’unico che ti può aiutare nel tuo lavoro. Che sfortuna hai avuto!”

Ancora una volta, il contadino cinese rispose: “Forse sì, forse no. Vedremo”.

Qualche settimana più tardi, alcuni soldati dell’esercito arrivarono nel villaggio e iniziarono a reclutare giovani uomini da portare a combattere in una guerra dove nutrivano poche speranze di vittoria. Quando passarono dalla casa del contadino cinese videro suo figlio con la gamba rotta e decisero quindi di passare oltre.

Gli abitanti del villaggio, una volta appresa la notizia, si rivolsero al contadino cinese: “I nostri figli vanno a morire in guerra mentre il tuo è infortunato. Che fortuna hai avuto!”

E il contadino cinese, come sempre, rispose: “Forse sì, forse no. Vedremo”.

La parabola del contadino cinese: i nostri pensieri e le nostre parole plasmano la nostra realtà

contadino cinese

Quanti di voi, dopo aver letto questa parabola del contadino cinese, l’hanno trovata illuminante? O, comunque, rivelatrice di qualcosa?

Nel leggerla, vi siete chiesti almeno una volta: “E se quel contadino cinese avesse ragione…?“.

Credo che la parabola del contadino cinese faccia riflettere.

Io ne sono venuta a conoscenza mesi fa.
Ho scelto di condividerla oggi perché questo è un periodo molto difficile per me, come credo lo sia per tutti. E credo che in un momento simile sia necessario, ora più che mai, soffermarsi su esempi positivi.

Per smetterla di stare male.
Per cercare di scorgere una luce in fondo a questo tunnel.

Credo che oggi sia facile pensare di non valere niente.
E’ facile credere di essere insignificanti in una realtà che ci vuole oppressi, chiusi in casa a lavorare: o a pensare che non troveremo mai lavoro. O a nutrire la paura di perderlo il lavoro, e di piombare in un incubo senza fine.

Credo che capiti a tutti di pensare di essere dei falliti.
Io l’ho pensato per venticinque anni filati, fino a quando non mi sono resa conto che nessuna delle persone che io avevo scelto di avere accanto (o che avevo incontrato) pensava questo di me.

Quello che voglio dire è che, a volte, siamo noi a fare tutto il lavoro.
A volte siamo noi a volerci male.
Siamo noi, con i nostri pensieri, ad influenzare negativamente la realtà che ci circonda e a plasmarla.

contadino cinese

Prendiamo questa parabola del contadino cinese, ad esempio: il leitmotiv che ricorre nel testo riguarda gli abitanti del villaggio, che, dopo ogni avvenimento accaduto al contadino commentano sempre giudicando gli eventi con un: “Che (s)fortuna che hai avuto!”.

Loro vedono una sfortuna o una fortuna, perché la loro visione della realtà, o di quel particolare problema, è negativamente assoggettata ad un perenne giudizio: ma la realtà del contadino cinese, invece, è del tutto diversa.

La parabola del contadino cinese: lascia fluire gli avvenimenti

Il contadino cinese non giudica la realtà dai singoli fatti che accadono nella vita sua e della sua famiglia.
Non giudica quel che gli succede. Anzi, in realtà, non giudica proprio nulla.
Il contadino cinese lascia fluire gli avvenimenti. Lascia che le cose avvengano.
E commenta la “(s)fortuna” che gli altri gli attribuiscono con un: “Forse si, forse no, vedremo.”

Non vi è mai capitato di guardare con distacco a momenti veramente brutti accaduti nel vostro passato?
Non vi è mai capitato di arrivare quasi a benedire il semplice fatto che vi siano successe quelle cose?
E arrivare quasi a dire: “Adesso capisco perché è successo!“.

Non vi è mai capitato di riuscire a guardare con lucidità qualcosa di negativo accaduto tempo prima e capire che quello che di negativo è accaduto è servito a rendervi ora una persona più positiva?

contadino cinese

La parabola del contadino cinese: non giudicare un avvenimento dal presente

Torniamo alla parabola del contadino cinese: è proprio il non giudizio che il contadino esercita sulla realtà, che gli consente di viverla senza nutrire aspettative su ciò che accadrà.

A volte noi carichiamo di troppe aspettative ogni cosa che facciamo.
Sembra quasi che ci risulti impossibile vivere senza.

Ma come facciamo a giudicare se un evento è positivo
o negativo per noi, se lo stiamo vivendo solo nel presente?

Forse perché ci basiamo troppo su ciò che noi vogliamo.
Abbiamo lo sguardo concentrato sullo striscione di arrivo e finiamo col perderci le straordinarie emozioni della corsa.

A corsa finita, sapremmo dire cos’abbiamo provato mentre stavamo correndo?
Saremmo in grado di descrivere la sensazione del vento sul viso, il dolore cocente dei muscoli che si sforzano, il cuore che batte a ritmo incessante nelle orecchie?

contadino cinese


Non credo. Perché per molti di noi quello che resta, arrivati alla fine di una corsa, è se hai vinto se hai perso quella gara.

Allo stesso modo, ci sono persone che definiscono altre persone dei “vincenti” o dei “perdenti”.
Vincenti.
Come se la vita fosse un gioco.

Pensiamo solo al risultato, non al lavoro che c’è dietro.
Da questo, nasce il concetto che, nella parabola del contadino cinese, gli abitanti del villaggio usano per definire la “fortuna” e “sfortuna”.

Ma noi abbiamo lo sguardo fisso sull’inquadratura di immagini e ci dimentichiamo che è il movimento della macchina da presa che crea la sequenza.
Anche se la nostra vita non è un film, è comunque tutto il lavoro del dietro le quinte che mette in scena le azioni.

La parabola del contadino cinese: vivi nel presente e guarda la vita con occhi nuovi

Forse non sempre la vita ti dà ciò che tu vuoi.
A volte, ti dona semplicemente quello di cui tu hai bisogno.

Proprio come osserviamo nella parabola del contadino cinese.

Noi non possiamo giudicare gli avvenimenti come giusti o sbagliati, sfortunati e non, perché viviamo nel presente.
Non possiamo prevedere il futuro.

L’unica cosa che possiamo fare è vivere nel presente, nel “qui e ora”.

Probabilmente, la parabola del contadino cinese vuole dirci questo: è nel modo di vedere le cose che possiamo fare la differenza tra una realtà negativa e una positiva.

La scelta è nel nostro modo di guardare la vita con occhi nuovi.
Ovviamente non è facile, soprattutto in questo momento, per tutti noi.

Ma il cambiamento non solo è possibile in ogni aspetto della nostra realtà: nella vita che affrontiamo ogni giorno, nel lavoro, nella nostra sfera di affetti.

Il cambiamento è la forza che muove ogni nostro passo.
Per questo dobbiamo fare in modo che sia positivo.

Quindi, in definitiva…

Sta a te scegliere: sei il contadino cinese o uno degli abitanti del villaggio?
Vedi la “sfortuna” anche dove non c’è? O vedi opportunità?

Giudichi continuamente la realtà per come la vedono i tuoi occhi?
Oppure, sospendi il giudizio e ti limiti a dire come disse il contadino cinese:

Forse si. Forse no. Vedremo.

Martina Vaggi

Photo credit: https://pixabay.com

Pensieri sulla pandemia

Sopravvivere ad una realtà in declino: la continua ricerca di se stessi

Sta diventando difficile questa realtà.
Forse per alcuni lo è sempre stato, per altri inizia ad esserlo ora.
Questa vita così poco “sociale” e “socievole”, alla quale ci siamo abituati. 
Queste abitudini malsane che abbiamo acquisito in questo anno, non per volontà nostra.

Il lavoro che viene tolto così, come se non valesse niente. 
Come se fosse solo un giocattolo che si sono stufati di regalarci.

La realtà di oggi: la perdita completa del controllo

Non abbiamo accesso al controllo.
Non possiamo decidere noi quando e come questa situazione finirà.
Non possiamo cambiare la situazione esterna.

E questa situazione che noi non possiamo controllare alla fine sta controllando noi.

Quando incontrai la Signora T. per la prima volta (ne parlo nel mio libro) stavo passando un brutto momento. Non potevo fare nulla per cambiare la situazione esterna e quindi la subivo, ci stavo molto male.

Sono passati due anni da quel momento, ma ricordo ancora quali furono le parole che mi disse:

“Non puoi cambiare la realtà: non puoi cambiare le altre persone. E non è nemmeno tuo dovere farlo. Tu puoi cambiare te stessa, se lo vuoi. Facendo questo, anche le cose esterne cambieranno.”

Immagino che non tutti possano credere o comprendere un discorso simile. 
Anche io avevo i miei dubbi. Fino a quando non mi sono resa conto che aveva ragione lei.
Fino a quando non ho capito il vero significato di quella frase.

Se cambi il tuo modo di vedere le cose e la realtà, acquisirai un punto di vista completamente diverso. 

A quel punto tutto ti sembrerà diverso.
Ti sembrerà che la realtà esterna sia cambiata
ma non sarà così: avrai solo cambiato modo di osservarla.

Questo esempio si applica bene alla realtà di oggi.

Ovviamente noi non possiamo controllare il Covid.
Nessuno di noi può gestire gli eventi esterni.
Ma possiamo mettere ordine sulla realtà dentro di noi.
Possiamo fare tutto quello che è in nostro potere e nelle nostre capacità per migliorare la nostra situazione.

Gestire i pensieri per gestire la realtà

Noi abbiamo una responsabilità, la più importante di tutte.

La responsabilità di gestire i nostri pensieri. 

Abbiamo una possibilità: quella di poter scegliere con cura i nostri pensieri, ogni giorno.

Un pensiero, coltivato ogni giorno, produce un risultato, che, con il tempo, diventa una realtà.
La nostra realtà, quella in cui viviamo, tutti i giorni.

Sta a noi scegliere se sia positiva o negativa.
Sta a noi decidere se la nostra realtà sarà un enorme prato in cui correre o una prigione in cui rinchiuderci.

La realtà di oggi è traumatica. 
Decisamente frustrante. Decisamente demotivante. 
Veramente, veramente triste.

Quindi? Che cosa è in nostro potere fare?

realtà

Imparare da una realtà in declino

Vi è mai capitato di ritrovarvi senza un soldo, eppure di sentirvi la persona più ricca del mondo?
Vi è mai capitato di non avere un lavoro eppure di riuscire comunque a tenere per mano la speranza?
Vi è mai capitato non avere una prospettiva di futuro, eppure… di riuscire a cogliere la bellezza, inafferrabile, del presente? 

A me è successo.
Non sto dicendo che vi auguro che vi capiti.

Dico solamente che è dalle situazioni peggiori che impariamo le lezioni più importanti.

E quando questo avviene, se tu riesci a cogliere quei momenti, se riesci a vederli, puoi imparare qualcosa che ti porterai dietro per sempre.

Quando è successo a me, anni fa, ho capito una cosa. 

Spesso noi tendiamo a dividere le persone in due categorie: persone negative e persone positive. 
Forse un po’ di genetica c’è anche in questo o forse ha ragione la “Legge dell’attrazione” (i pensieri diventano cose, ecc.).
O forse… siamo noi che decidiamo chi vogliamo essere. 

Quando è successo a me ho capito che le persone non possono essere divise in due categorie: perché tra le persone negative e quelle positive c’è uno spazio enorme, aperto, dove circolano tutti coloro che ancora non hanno capito bene da che parte stare.

Come avviene il cambiamento della nostra realtà

Ad un certo punto mi sono accorta che avevo passato vent’anni a rimproverarmi di qualsiasi cosa e ad addossarmi qualsiasi colpa.
E a cosa mi era servito?
Avevo passato del tempo con persone che mi avevano sempre criticato.
E a cosa mi era servito?

Era servito a cercare una persona che mi aiutasse a cambiare la mia realtà
Era servito a capire che a volte non possiamo farcela da soli.
Che il cambiamento, per quanto possa spaventare e fare paura, per quanto possa portarti a soffrire, conduce, inevitabilmente, anche a qualcosa di buono.

Ci vogliono anni, forse. 
Ma, alla fine, inizi a diventare il cambiamento che vorresti vedere negli altri.

Quando scegli di non vedere sempre il lato negativo.
Quando capisci che essere negativi con se stessi non ti porta da nessuna parte.
Che nessuno ottiene dei risultati se continua a darsi del “cretino”. 

Ci vuole del tempo. 

Ma la più grande conquista che tu possa ottenere durante questo percorso arriva quando inizi ad occuparti di te. 

Quando smetti di guardare gli altri, di paragonarti a loro.

Loro hanno la loro realtà: tu hai la tua.

E non vuoi più cambiarli, perché sai che non puoi. Non funziona così.
Quando inizia a ricercare la tua approvazione. 
Non quella degli altri. 

Agli altri non importa nulla di te.
Ed è giusto che sia così. 

Martina Vaggi

Photo credit: https://pixabay.com/

Pensieri sulla pandemia

Essere all’altezza di un mondo che vuole sempre di più

Ci sono persone al mondo che non si sentono mai di essere all’altezza di nulla.
Ce ne sono altre, poi, che non sanno chi sono né si pongono il problema.

Trovano la propria strada: la percorrono fino in fondo e poi un giorno si svegliano e si rendono conto che non era ciò che volevano.

Ma è tardi per tornare indietro.

Ci sono persone che si guardano dentro per una vita intera nel tentativo di capire chi sono davvero.
Guardano dentro al loro mondo, quel baratro infinito e ci si buttano senza paracadute.
Ma è pericoloso guardarsi dentro se non sei pronto ad accettare le due parti.

La luce e il buio.

Se ti guardi dentro troppo a lungo, rischi di non riemergere più. 

essere all'altezza

Essere all’altezza di se stessi quando l’esterno cambia

Per alcuni di noi, accettare se stessi è la cosa più difficile.
Accettare di non essere sempre così buoni.
Accettare di non riuscire sempre a gestirsi. Di non riuscire a restare dentro quelle fottute righe dove ogni persona viene delimitata, catalogata, controllata. 
Sono righe sottili che ti inquadrano in una forma geometrica dove tu dovresti riuscire a stare, a vivere. 

Hai uno spazio e dovresti riuscire a fartelo bastare.

Per alcuni di noi è difficile.
È difficile accettare di non riuscire a trovare un posto che ti appartenga e al quale tu possa appartenere. 
E ci provi ad adeguarti, ci provi davvero ma il mondo invade il tuo spazio con le sue regole e i suoi problemi e tu senti di non avere un posto. 
Non vedi di fronte a te una direzione, un percorso da seguire. 

Per alcuni di noi è davvero difficile.
È difficile accettare che non saremo mai abbastanza per un mondo che vuole sempre di più.

essere all'altezza

Essere all’altezza di tutto: difficoltà del vivere nel mondo odierno

Questo mondo in cui viviamo oggi non aiuta nel ricercare una propria stabilità.
Che essa sia economica, sentimentale, personale.
Questo mondo è sempre più complicato.

Non ti consente di avere una “apparente” tranquillità.
Se non fosse che, come viene spesso detto, la serenità dovremmo essere in grado di trovarla noi.

Dentro ognuno di noi. Non al di fuori.

Questa tematica mi fa venire in mente un libro che ho letto anni fa, in un momento molto buio della storia dell’umanità.

Questo libro si chiama “Come vivere felici in un mondo imperfetto: ritrovare la chiave che conduce all’amore e alla pace“.
In questo libro straordinario le parole del Dalai Lama stimolano a ritrovare la consapevolezza per poter vivere sereni e in pace con se stessi, seppur in un mondo tutt’altro che semplice.

Lo potete trovare qui, su Amazon.
Vi lascio il link, in caso foste anche voi alla ricerca di un po’ di serenità interiore e di tregua da questo mondo.

Dicevamo…

Questo mondo che ambia con molta velocità: è veramente difficile stargli dietro.
Questo mondo che sembra impoverirsi di valori, sempre più.
Come se quasi non fossero mai esistiti.

La costante che ci accomuna sembra essere il vivere nella paura.

Viviamo costantemente nella paura di un futuro
perché siamo incapaci, forse, di vivere il nostro presente.

Essere all’altezza dei cambiamenti: vivere nella paura di un mondo peggiore

L’unica certezza è il costante mutamento a cui tutti siamo destinati.
Ci aggrappiamo ad un mondo che sembra non volerci ma che pretende da noi sempre qualcosa in più.

Viviamo sospesi.
A volte incapaci di muoverci.
Ora che tutto si è fermato, ora che questa realtà si è trasformata e ci sta trasformando, sembra ancora più difficile ripartire.

essere all'altezza

E questo tempo incerto prende da te ciò che tu lasci prendere.
Distrugge le poche certezze.
Ti scava dentro se tu glielo permetti. 
Ti costringe ad ancorarti al presente quando tu vorresti nutrire speranze per il futuro.

Questo tempo presente che viviamo ognuno in maniera diversa, in fondo, forse opprime tutti noi.
Insinua domande e dubbi. 
Ti costringe a guardare anche se tu vorresti coprirti gli occhi e non vedere tutte quelle domande che pretendono la tua attenzione.

Ce la farò a trovare lavoro?
Sarò in grado di evolvermi a tal punto da non sentire più il dolore?
Riuscirò a guardare altrove, a fingere di non soffrire per tutto questo?

Riuscirò mai ad essere all’altezza per un mondo che vuole sempre di più?

essere all’altezza essere all’altezza essere all’altezza essere all’altezza essere all’altezza essere all’altezza essere all’altezza

Martina Vaggi

Photo credit: https://pixabay.com

Autori emergenti

Raccogliere storie e testimonianze, un diario di quarantena ft. Martina Vaggi

Gabriele Glinni intervista Martina Vaggi sul libro “Il diario del silenzio – Storie reali di quarantena”. Trovi l’intervista pubblicata su “Pillole di Folklore” qui.

Bentrovati a tutti! La scrittrice Martina Vaggi, durante il periodo della quarantena, si è dedicata a un bellissimo lavoro. La sua opera, “ll diario del silenziostorie reali di quarantena” contiene cinquanta racconti (basati su storie reali) che riguardano il primo lockdown.
Trovando il suo lavoro molto interessante, desideravo esplorarlo più in dettaglio. Dunque benvenuta Martina, e grazie per la tua partecipazione!

Ecco la mia prima curiosità.

Cosa ti ha spinta ad approcciarti a questo genere di lavoro, ossia, raccogliere le testimonianze di 50 persone, elaborandole in forma di racconto?

Ciao Gabriele, innanzitutto ti ringrazio per avermi ritagliato questo bellissimo spazio. 
Quello che mi ha spinto a iniziare questa raccolta di testimonianze è stata la voglia di raccontare, di dare una testimonianza scritta, di ciò che tutti noi, in un modo o nell’altro, abbiamo vissuto in questo momento storico molto difficile e traumatico.

Volevo raccogliere testimonianze di varie persone, di vari settori di lavoro e di come avessero affrontato la situazione nei mesi del primo lockdown.

Martina Vaggi

Per questo motivo, ho deciso di occuparmi non solo delle persone comuni (ossia di quelle persone che, come me, avevano vissuto il lockdown in casa, in una routine di ansia e paura) ma di allargare questa ricerca a vari settori lavorativi.

Così ho cercato persone che avessero lavorato a stretto contatto con questa realtà, come gli infermieri, i medici, gli operatori sanitari: ho ascoltato gli insegnanti, che avevano lavorato da casa con la didattica a distanza, e gli studenti, che avevano risentito di questo brusco cambiamento trovandosi senza punti di riferimento.

Poi ho ascoltato gli imprenditori, quelli che avevano chiuso l’azienda e gli altri che avevano continuato a lavorare, nonostante le enormi difficoltà. I dipendenti e il lavoro in smartworking. Gli psicologi, gli educatori, coloro che avevano cercato di aiutare, anche se a distanza: i volontari della protezione civile, che portavano a casa beni di prima necessità a chi era più a rischio. 

Queste e tante altre storie, tante altre realtà.

Per ogni persona che ascoltavo io costruivo una storia, un racconto, cercando di mettermi nei panni di quella persona e di raccontare ciò che lei aveva visto con i suoi occhi: ogni racconto inizia con una data, con un luogo e una regione e con la dicitura “Quarantena, giorno…”.

In questo modo ho potuto tenere il conto dei giorni di lockdown che abbiamo vissuto. Ho strutturato il libro come se fosse un diario, cercando di dare una panoramica generale di come l’Italia avesse affrontato quel momento storico. 

Pur essendo un libro che racconta molto il dolore, la sofferenza vissuta, ho cercato in realtà di trasmettere anche speranza, positività: molte di queste persone che ho ascoltato, infatti, sono state in grado di reagire a questa situazione, portando anche molti esempi positivi che era giusto trasmettere.

Martina Vaggi

Per tornare alla domanda che mi hai fatto, aggiungerei anche questo: avendo io vissuto il lockdown chiusa in casa, non avevo potuto essere di aiuto a nessuno. Credo che sia stato anche questo a spingermi a dar vita a questo libro: la voglia di dare qualcosa.

Trasmettere tutti i sacrifici, gli sforzi che molte persone avevano compiuto in quel momento per adattarsi a questa nuova realtà, a questo enorme cambiamento.

Andiamo più nello specifico.

Ci sono state delle storie in particolare che ti hanno colpita, rattristita o ispirata, in fase di stesura?

Citane pure alcune liberamente!

Tra le storie che ho raccontato, quella che più mi ha colpita nella sua particolarità e stata quella riguardante un sacerdote e la sua opera di volontariato nei reparti Covid. Quando ho ascoltato questa persona, lui mi ha raccontato di un episodio accaduto durante un turno notturno in reparto.

C’è questo frammento di storia, in cui lui incontra nei corridoi dell’ospedale un medico: da questo incontro nasce un momento di profonda umanità. Il medico si ferma di fronte al sacerdote, lo riconosce nel suo ruolo (grazie alla croce di legno che portava sopra alla tuta, la stessa che indossavano gli operatori sanitari) e in un momento di silenzio, di profondo dolore, gli prende la mano e se la porta sulla testa.

I due rimangono così, uniti in quel momento di preghiera.

Martina Vaggi

Quando lui mi ha raccontato questa scena, mi è sembrato di vederla nella mia mente, come se fosse un film.
Il suo racconto si intitola “Il prete volontario” ed è quello che, tutt’ora, mi commuove di più. 

Ci sono dettagli nelle storie, come per esempio nomi reali o riferimenti, a cui devi fare attenzione o che devi trattare in modo specifico, con dovuto riguardo?

Ho preferito usare nomi fittizi per raccontare le storie di queste persone. Solo in alcuni casi ho mantenuto il loro vero nome e cognome, in quanto i protagonisti di queste storie mi hanno dato un consenso firmato ad usare la loro vera identità.

Per tutti gli altri, i nomi sono inventati, li ho scelti io. Come se fossero personaggi creati e non reali.
Anche per quanto riguarda gli ospedali: non ho usato i nomi delle strutture.

Martina Vaggi

Se stavo scrivendo di un racconto ambientato in un ospedale di provincia, non citavo né il nome dell’ospedale né la provincia. Lo indicavo semplicemente con il nome della regione. Ad esempio: “Ospedale in Piemonte”.

In che modo hai cercato persone disponibili a narrare le loro storie? Hai in seguito mantenuto qualche racconto?

Le prime persone che ho ascoltato sono state persone vicine a me o conoscenti. Altre persone sono state proprio loro a trovarle: diciamo che il “passaparola” ha aiutato molto, in questo caso.
Io avevo le idee chiare su chi volevo ascoltare: ad esempio, ho cercato a lungo una persona di Bergamo e alla fine sono riuscita a trovare una persona di Nembro, il paesino focolaio dell’epidemia nella bergamasca.

Martina Vaggi

Volevo anche una persona del Veneto, che mi raccontasse come la regione avesse vissuto la situazione. Poi mi sono mossa nel cercare anche persone del sud Italia: è stato interessante osservare come, almeno in un primo momento, loro avessero vissuto la situazione di riflesso, “subendo” anche psicologicamente ciò che stava accadendo al nord Italia, dalle immagini che vedevano nei telegiornali. 

Ogni volta che ascoltavo una persona, accadeva che fosse lei a dirmi: “Sai che anche un mio amico ha vissuto una determinata situazione mentre era in quarantena”. In questo modo, non è stato difficile “costruire” una rete di persone disposte a raccontarsi.

Ho visto in molte persone la voglia di raccontare le proprie storie.

Questo è veramente molto bello, Martina.
Noi ricordiamo che il libro di Martina Vaggi “Il diario del silenzio” lo potete trovare su Amazon e vi lasciamo qui il link:

Ora una domanda di più amplio respiro.

Cosa ti ha avvicinata alla scrittura? Qual è stato il tuo percorso, e cosa consiglieresti a chi si avvicina per la prima volta a tale hobby?

Io scrivo da sempre. Ho sempre avuto questa esigenza.

L’esigenza di esprimere la moltitudine di pensieri che affollano la mia mente o di raccontare ciò che vedo tramite le mie esperienze o le storie degli altri. 

Per questo scopo, nel 2015, ho creato il mio blog “Pensieri surreali di gente comune”. Successivamente sono nate le pagine Facebook e Instagram collegate al blog.

Durante il lockdown tenevo una sorta di “diario pubblico” su queste pagine, dove pubblicavo post in cui indicavo il giorno di quarantena e il mio pensiero sul giorno trascorso o sui sentimenti che provavo e “vedevo” espressi anche da altri. Da qui è nata l’impostazione del libro “Il diario del silenzioStorie reali di quarantena”.

Negli anni precedenti alla nascita del blog e del libro, ho studiato Lettere Moderne all’Università di Pavia, mi sono laureata che già scrivevo su giornali cartacei e digitali a tempo pieno. Purtroppo, non percependo un compenso, una volta laureata non ho più avuto la possibilità di continuare: avevo, ovviamente, bisogno di un lavoro che mi desse la possibilità di mantenermi. 

Martina Vaggi

Così ho svolto diversi lavori: mi sono adattata ma non ho mai smesso di scrivere. 
Credo che sia questo il “consiglio” che potrei dare a chi, come me, si ritrova ad avere una “capacità” che non è molto remunerativa: di continuare a provare, di continuare a scrivere, di cercare una strada per poterlo fare, un giorno, come lavoro. 

Io non so se riuscirò mai a vivere solamente di scrittura ma sicuramente continuerò a provarci.

Grazie di cuore per la tua partecipazione, Martina! Siamo stati felici di ospitarti, e di parlare di una tematica così particolare e interessante.
Abbiamo inoltre piacere di includere i tuoi lavori e i tuoi link social:

Grazie a te per questa bellissima esperienza.


“Il diario del silenzio – Storie reali di quarantena” di Martina Vaggi su Amazon: https://lnkd.in/dcmdkqe

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Il diario del silenzio

“Il diario del silenzio”: scrivere e pubblicare un libro di testimonianze

Che cosa provi mentre stai correndo una maratona? Mentre vedi il traguardo ancora troppo lontano da raggiungere e le gambe iniziano a farti male?

Non puoi dirlo in quel momento.
In quel momento la tua mente deve essere sgombra di pensieri, per permetterti di correre liberamente, senza condizioni. Quello che provi, o che hai provato in quegli istanti di fatica e sudore, lo capirai e sarai in grado di raccontarlo solo più avanti. A mente lucida.

È la stessa cosa che succede quando stai scrivendo un libro.
La stessa cosa accadde a me quando scrissi “Il diario del silenzio – Storie reali di quarantena“.

Il diario del silenzio

Scrivere un libro: l’importanza di fare delle liste

Nel luglio 2020 è nata in me questa consapevolezza.
Era da più di un mese terminato il primo lockdown che tutti avevamo vissuto con gli stessi sentimenti: sgomento, dolore, rabbia, incredulità.

Perché non mettere quei sentimenti su carta?
Perché non lasciare un segno di ciò che avevamo vissuto e provato, affinché altri, nel futuro, potessero leggerli e immedesimarsi in noi?

Ho iniziato il tutto in maniera innocente.
Prima ho pensato a cosa volevo esattamente esprimere.
Che cosa avrei voluto rappresentare con “Il diario del silenzio“?

Volevo ascoltare varie persone e le loro storie riferite a quel folle lasso di tempo che aveva lasciato cicatrici indelebili su ognuno di noi.

Cominciai facendo una lista.
Tutto partì con un foglio di carta dove io appuntai tre riferimenti:

Il diario del silenzio

Volevo raccontare storie.
Dovevo contattare persone disponibili a raccontarmele.
Il tutto, nel più breve tempo possibile.

Il lockdown era terminato da poco e io non avevo la minima idea che potesse ripresentarsi un’emergenza sanitaria di lì a pochi mesi.
Credevo di dover fare tutto alla svelta, altrimenti l’argomento non sarebbe più stato molto attuale, dopo.

Così, partì la mia ricerca.
La ricerca di date, avvenimenti, di persone e aziende che potessero darmi una mano nel realizzare “Il diario del silenzio“.

Nonostante i miei dubbi, trovai molte persone disposte a raccontarmi di loro.
E quel foglio dove io mi ero appuntata quei primi tre riferimenti, ben presto divenne una vera e propria lista.

Una lista di persone da intervistare.

Il diario del silenzio


All’inizio tutto partì così.
Ma… ben presto, dopo le prime interviste, mi resi conto di una cosa.

“Il diario del silenzio”: l’ascolto attivo delle testimonianze

Quelle persone non erano cavie.
Erano testimonianze di un periodo storico mai vissuto prima.
E io non dovevo intervistarle.
Dovevo ascoltarle.
Immedesimami in loro, in tutte quelle parole
che sgorgavano senza un freno.
In tutti quei sentimenti che trapelavano da ogni
movimento inconscio delle mani, del loro sguardo.

La prima persona che ascoltai fu un paziente della Toscana, che era stato ricoverato in terapia intensiva per due settimane.
Io non lo conoscevo, non l’avevo mai visto prima.
Era stato un mio amico a darmi il suo contatto.
Mi parlò al telefono per due ore e mezza.

Credo di non aver mai ascoltato per così tanto tempo e con così tanta attenzione una persona in tutta la mia vita.

Il flusso di parole era così impetuoso e continuo, che quasi mi dispiaceva interromperlo con le mie domande.

Il diario del silenzio

Ogni volta che ascoltavo una testimonianza
cercavo di non interromperla perché non
volevo rovinare quel flusso di emozioni.
Il problema era che avevo bisogno di un
quadro cronologico chiaro e quindi di date,
di periodi, per poter poi incanalare tutto questo
in una sorta di “diario”, dove ogni racconto
avrebbe avuto la sua data in cui poter circoscrivere la sua storia.

La cosa strana era che avevo sempre pensato di non essere all’altezza di fare nulla nella mia vita.

E invece… ho scritto “Il diario del silenzio“. Chi l’avrebbe mai pensato?
Non io.

Non io, che ho sempre pensato che non avrei mai potuto scrivere un libro, nonostante avessi scritto praticamente da sempre: sui giornali, su testate digitali, sul mio blog.
Come posso io rendere appieno un’esperienza vissuta da un’altra persona?
Questo mi chiedevo, continuamente.
Eppure, man mano che andavo avanti in questo percorso, capii una cosa.

Il diario del silenzio

L’ascolto è la chiave.

Se vuoi davvero conoscere la storia di una persona, devi ascoltarla.

E non mi riferisco a quell’ascolto di cui facciamo uso tutti, tutti i giorni: concedere all’altra persona di parlare solo per poter dare noi una risposta.
Quello non è ascoltare.
È attendere il proprio turno, esattamente come facciamo ogni volta che siamo in coda per salire sul treno.

Il vero ascolto è quello attivo.
Quello che prescinde da ogni giudizio.
Questo è l’ascolto che ti permette di entrare nella vita delle persone e di cogliere sfumature in loro che neanche loro sanno di avere.
Questo è l’ascolto che esercitai per poter immedesimarmi nelle storie di quelle persone e scrivere il libro.
Questo mi portò un arricchimento personale impagabile.

Il flusso di coscienza dello scrittore

Dopo neanche un mese dall’inizio della prima stesura di “Il diario del silenzio“, ero entrata in una sorta di limbo.
Stavo sperimentando quello che gli psicologi chiamano “Flow“, cioè “Flusso”.
Ovvero: uno stato di coscienza dove la persona è completamente coinvolta nell’attività che sta svolgendo.

Il diario del silenzio

Ricordo che la mia vita andava avanti come se niente fosse, ma io ne ero quasi estranea.
In quei momenti pensavo:

Ogni volta che cammino per la strada,
ogni volta che vado a lavoro,
ogni volta che mi addormento alla sera,
sto pensando al libro: a chi ascoltare,
a chi coinvolgere, a come fare per farlo crescere.

Il fatto è che la mia vita, in quel momento, era un vero casino.
Da anni non avevo grandi soddisfazioni personali o lavorative a cui attingere.
In più, il mio fidanzato aveva ricevuto una promozione, si era trasferito al sud e noi ci eravamo lasciati.
Stavo soffrendo.

E per la prima volta ci riuscii: riuscì ad usare la sofferenza per fare qualcosa di produttivo.

Anche da quella sofferenza nacque “Il diario del silenzio“.
Questo mi fece prendere consapevolezza di una cosa.

I percorsi si fanno con i “nonostante.
Non con i “se” e con i “ma”.
Con quelli non si va da nessuna parte.

Un percorso si fa nonostante tu stia male.
Nonostante tu sia delusa.
Nonostante in te alberghi sofferenza.
Perché puoi comunque trovare la strada per vedere la gioia.
Che è ovunque il nostro occhio sia disposto a scovarla.

Scrivere un libro: cosa fare dopo che la prima stesura è terminata

Nello scrivere “Il diario del silenzio“, una volta che la prima stesura fu terminata, si chiuse una porta e se ne aprirono altre mille.
Come devo procedere ora?“, mi chiesi, in quel momento.
Una lista. Dovevo fare un’altra lista.

Il diario del silenzio

Il 22 ottobre 2020 fu la prima volta che vidi il mio libro online.
Come titolo scelsi, appunto, “Il diario del silenzio“.
Il sottotitolo fu “Storie reali di quarantena“.

All’inizio, quando guardai il mio libro per la prima volta,
io vidi solo il mio nome.
Credo che capiti a tutti, soprattutto se è il primo libro.

Solo dopo alcune settimane dalla pubblicazione iniziarono ad accadere delle cose.
Il diario del silenzio” si stava diffondendo, soprattutto a livello locale.
Trattando di storie reali e, di racconti dov’era presente molta sofferenza, si presentarono alla mia porta alcune situazioni.

Una signora del paese fermò mia mamma al supermercato per farle i complimenti.
Le disse: “Ho letto il libro di sua figlia“, poi scoppiò a piangere.
E mia mamma, con lei.
Il tutto davanti al banco dei salumi.

Alcune persone che avevo ascoltato iniziarono a portare il libro a lavoro, nei reparti dell’ospedale e a parlarne.
Un passante del mio paese, un giorno, mi fermò per strada e mi disse: “Sai che quando ho letto ‘Il diario del zilenzio‘ ho pianto per una notte intera?“.

La mamma di una mia coscritta mi mandò a casa dei fiori: avevo deciso di inserire sua figlia, deceduta giovane in un incidente, in un racconto del libro. L’avevo descritta esattamente come era da viva: una bella ragazza solare, con una straordinaria voglia di vivere.

Ho pensato che anche se una persona non può più vivere su questa terra, può comunque vivere per sempre in un racconto.

La scrittura, serve a questo. A lasciare una traccia.

Il giorno in cui mi arrivarono a casa quei fiori, trovai anche un biglietto, scritto dalla mamma della mia coscritta.
Quel giorno ho pianto senza riuscire a fermarmi.

Succedevano cose molto belle, in continuazione.
Ma tutte queste cose non riguardavano me.

Non ero io il centro di quel turbine.
Erano le altre persone.

E in quel momento mi sono resa conto che non era il mio nome la cosa più importante di “Il diario del silenzio“.
Erano tutte le altre persone al quale il libro era legato.

Da quel momento in poi, smisi di focalizzarmi sul mio nome in copertina.

“Il diario del silenzio”: cosa fare dopo averlo pubblicato

Divenne una priorità per me fare in modo che le persone parlassero del libro.
Ma in che modo dovevo muovermi?

Il diario del silenzio


In qualche modo, fare quelle liste mi aiutava ad organizzare la giornata.
Riuscivo sempre a portare a termine ciò che mi ero scritta e ad ottenere anche dei buoni risultati.

Nel giro di due mesi avevo venduto circa cinquecento copie, tra eBook e print on demand.
Avevo ottenuto un buon numero di recensioni, tutte positive.
Dopo tre mesi, “Il diario del silenzio” era primo nella classifica IBS.it degli eBook più regalati dell’anno.

Forse per alcuni sembrerà poco. Per altri, sembrerà tanto.
Per me non era né tanto né poco: erano semplicemente obbiettivi che mi ero prefissata di raggiungere.
Mi limito a riportare quanto è successo e quanto ho ottenuto, sapendo di averci messo tutta me stessa.

Poco dopo che “Il diario del silenzio” venne pubblicato, mia mamma mi disse: “Sei fortunata che hai trovato persone che ti fanno pubblicità, che ti organizzano presentazioni, che ci tengono a parlare del libro.
Ma io sapevo che la fortuna, in realtà, non c’entrava molto.

Quando lavori su un tuo progetto, quando sei tu a cercare i contatti, a creare legami,
a fare in modo che le persone credano in quello che stai facendo anche più
di quanto ci creda tu, non è fortuna.
Semplicemente avevi chiaro un obbiettivo: ci hai lavorato su e hai ottenuto dei risultati.
Fine.

Nel processo di scrittura e pubblicazione di un libro, tutti pensano che scriverlo sia la fase più difficile.
Le persone credono che sia quello il vero e duro lavoro e, in effetti, prima di pubblicare “Il diario del silenzio” anche io la pensavo così.
Scrivere in effetti non è semplice.
Assemblare tutti i pensieri fino a dar loro la forma di un libro, lo è ancora meno.

La verità è che, quando il libro venne pubblicato, io ebbi in qualche modo la percezione che il duro lavoro iniziasse in quel momento.
E, effettivamente, questo fu ciò che avvenne.

Il diario del silenzio

“Il diario del silenzio”: i book blogger, i contatti, le recensioni

Dopo la pubblicazione de “Il diario del silenzio“, non avendo io una casa editrice alle spalle, mi sono organizzata io.
Quello è il momento in cui ho cercato i contatti con persone disposte a parlare del tuo libro sui loro blog, sui giornali: ricerchi interviste, recensioni.
Crei tu stesso dei contatti che poi mantieni.
In che modo?

Con la gentilezza. Con la consapevolezza che niente ci è dovuto da nessuno.
E con l’uso di due semplici parole, delle quali a volte scordiamo l’esistenza: per favore e grazie.
Ma in tutto questo c’era anche qualcos’altro.
In qualche modo, l’aver pubblicato un libro fece maturare in me una consapevolezza.

Io non ero nessuno.
E il fatto di aver pubblicato un libro
con il mio nome sopra non faceva di me qualcuno.

In Italia, ogni giorno, vengono pubblicati circa duecento libri.

Ogni giorno. Duecento libri. “Il diario del silenzio” era solo uno di questi.
Quindi… per come la vedo io, siamo tutti dei “nessuno”.
Tutti noi siamo dei nessuno per il mondo, o per le altre persone.

Dunque… dov’ero rimasta?
Ah si, giusto: mantenere dei contatti.
Il passo successivo, almeno per me, fu quello di cercare concorsi letterari e fiere online a cui iscrivere “Il diario del silenzio“.

Creare anche un booktrailer. Anche solo per mettermi alla prova.
E poi… guardare al futuro.
Avendo sempre in mente un obbiettivo.
Il che mi riporta a quest’ultima lista che ho fatto un mese fa:

Il diario del silenzio

… Su questi ultimi due punti ci sto ancora lavorando.

Martina Vaggi

Photo credit immagine in evidenza: “Il diario del silenzio” di http://booklovers105.blogspot.com/2020/12/recensione-il-diario-del-silenzio.html

Altre immagini: Pixabay e Canva e “Il diario del silenzio” di Martina Vaggi.




Il diario del silenzio

Scrivere e pubblicare un libro di testimonianze: l’ascolto attivo e l’importanza di fare delle liste

Che cosa provi mentre stai correndo una maratona? Mentre vedi il traguardo ancora troppo lontano da raggiungere e le gambe iniziano a farti male?
Non puoi dirlo in quel momento.
In quel momento la tua mente deve essere sgombra di pensieri, per permetterti di correre liberamente, senza condizioni. Quello che provi, o che hai provato in quegli istanti di fatica e sudore, lo capirai e sarai in grado di raccontarlo solo più avanti. A mente lucida.
È la stessa cosa che succede quando stai scrivendo un libro.

Apri Word e vedi quella pagina bianca davanti a te.
E senti in te quel bisogno, quella necessità di riempirla.
Sai che devi farlo.

Nel luglio 2020 è nata in me questa consapevolezza.
Era da più di un mese terminato il primo lockdown che tutti avevamo vissuto con gli stessi sentimenti: sgomento, dolore, rabbia, incredulità.
Perché non mettere quei sentimenti su carta? Perché non lasciare un segno di ciò che avevamo vissuto e provato, affinché altri, nel futuro, potessero leggerli e immedesimarsi in noi?

Ho iniziato il tutto in maniera innocente.
Prima ho pensato a cosa volevo esattamente esprimere: volevo ascoltare varie persone e le loro storie riferite a quel folle lasso di tempo che aveva lasciato cicatrici indelebili su ognuno di noi.
Cominciai facendo una lista.
Tutto partì con un foglio di carta dove io appuntai tre riferimenti:

Volevo raccontare storie.
Dovevo contattare persone disponibili a raccontarmele.
Il tutto, nel più breve tempo possibile.

Il lockdown era terminato da poco e io non avevo la minima idea che potesse ripresentarsi un’emergenza sanitaria di lì a pochi mesi.
Credevo di dover fare tutto alla svelta, altrimenti l’argomento non sarebbe più stato molto attuale, dopo.

Così, partì la mia ricerca.
La ricerca di date, avvenimenti, di persone e aziende che potessero darmi una mano nel realizzare il mio progetto.

Nonostante i miei dubbi, trovai molte persone disposte a raccontarmi di loro.
E quel foglio dove io mi ero appuntata quei primi tre riferimenti, ben presto divenne una vera e propria lista.
Una lista di persone da intervistare.


All’inizio tutto partì così.
Ma… ben presto, dopo le prime interviste, mi resi conto di una cosa.

Quelle persone non erano cavie.
Erano testimonianze di un periodo storico mai vissuto prima.
E io non dovevo intervistarle.
Dovevo ascoltarle.
Immedesimami in loro, in tutte quelle parole che sgorgavano senza un freno.

In tutti quei sentimenti che trapelavano da ogni movimento inconscio delle mani, del loro sguardo.

La prima persona che ascoltai fu un paziente della Toscana, che era stato ricoverato in terapia intensiva per due settimane.
Io non lo conoscevo, non l’avevo mai visto prima.
Era stato un mio amico a darmi il suo contatto.
Mi parlò al telefono per due ore e mezza.
Credo di non aver mai ascoltato per così tanto tempo e con così tanta attenzione una persona in tutta la mia vita.
Il flusso di parole era così impetuoso e continuo, che quasi mi dispiaceva interromperlo con le mie domande.

Ogni volta che ascoltavo una testimonianza cercavo di non interromperla perché non volevo rovinare quel flusso di emozioni.
Il problema era che avevo bisogno di un quadro cronologico chiaro e quindi di date, di periodi, per poter poi incanalare tutto questo in una sorta di “diario”, dove ogni racconto avrebbe avuto la sua data in cui poter circoscrivere la sua storia.

La cosa strana era che avevo sempre pensato di non essere all’altezza di fare nulla nella mia vita.
Ho sempre pensato che non avrei mai potuto scrivere un libro, nonostante avessi scritto praticamente da sempre: sui giornali, su testate digitali, sul mio blog.
Come posso io rendere appieno un’esperienza vissuta da un’altra persona?
Questo mi chiedevo, continuamente.
Eppure, man mano che andavo avanti in questo percorso, capii una cosa.

L’ascolto è la chiave.
Se vuoi davvero conoscere la storia di una persona, devi ascoltarla.
E non mi riferisco a quell’ascolto di cui facciamo uso tutti, tutti i giorni: concedere all’altra persona di parlare solo per poter dare noi una risposta.
Quello non è ascoltare.
È attendere il proprio turno, esattamente come facciamo ogni volta che siamo in coda per salire sul treno.

Il vero ascolto è quello attivo.
Quello che prescinde da ogni giudizio.
Questo è l’ascolto che ti permette di entrare nella vita delle persone e di cogliere sfumature in loro che neanche loro sanno di avere.
Questo è l’ascolto che esercitai per poter immedesimarmi nelle storie di quelle persone e scrivere il libro.

Questo mi portò un arricchimento personale impagabile.

Dopo neanche un mese dall’inizio del mio percorso, ero entrata in una sorta di limbo.
Stavo sperimentando quello che gli psicologi chiamano “Flow“, cioè “Flusso”.
Ovvero: uno stato di coscienza dove la persona è completamente coinvolta nell’attività che sta svolgendo.

Ricordo che la mia vita andava avanti come se niente fosse, ma io ne ero quasi estranea.
In quei momenti pensavo: “Ogni volta che cammino per la strada, ogni volta che vado a lavoro, ogni volta che mi addormento alla sera, sto pensando al libro: a chi ascoltare, a chi coinvolgere, a come fare per farlo crescere.

Il fatto è che la mia vita, in quel momento, era un vero casino.
Da anni non avevo grandi soddisfazioni personali a cui attingere.
In più, il mio fidanzato aveva ricevuto una promozione, si era trasferito al sud e noi ci eravamo lasciati.
Stavo soffrendo.
E per la prima volta riuscii a usare quella sofferenza per fare qualcosa di produttivo.

I percorsi si fanno con i “nonostante.
Non con i “se” e con i “ma”.
Con quelli non si va da nessuna parte.
Un percorso si fa nonostante tu stia male.
Nonostante tu sia delusa
.
Nonostante in te alberghi sofferenza.

Perché puoi comunque trovare la strada per vedere la gioia.
Che è ovunque il nostro occhio sia disposto a scovarla.

Nello scrivere un libro, una volta che la prima stesura è terminata, si chiude una porta e se ne aprono mille.
Come devo procedere ora?“, mi chiesi.
Una lista. Dovevo fare un’altra lista.

Il 22 ottobre 2020 fu la prima volta che vidi il mio libro online.
Come titolo scelsi “Il diario del silenzio“.
Il sottotitolo fu “Storie reali di quarantena“.
All’inizio, quando lo guardai per la prima volta, io vidi solo il mio nome.
Credo che capiti a tutti, soprattutto alla prima pubblicazione.

Solo dopo alcune settimane dalla pubblicazione iniziarono ad accadere delle cose.
Il libro si stava diffondendo, soprattutto a livello locale.
Trattando di storie reali e, perlopiù, di storie dov’era presente molta sofferenza, si presentarono alla mia porta alcune situazioni.

Una signora del paese fermò mia mamma al supermercato per farle i complimenti.
Le disse: “Ho letto il libro di sua figlia”, poi scoppiò a piangere. E mia mamma, con lei.
Il tutto davanti al banco dei salumi.
Alcune persone che avevo ascoltato iniziarono a portare il libro a lavoro, nei reparti dell’ospedale e a parlarne.
Un passante del mio paese, un giorno, mi fermò per strada e e mi disse: “Sai che quando l’ho letto ho pianto per una notte intera?”.
La mamma di una mia coscritta mi mandò a casa dei fiori: avevo deciso di inserire sua figlia, deceduta giovane in un incidente, in un racconto del libro. L’avevo descritta esattamente come era da viva: una bella ragazza solare, con una straordinaria voglia di vivere.
Ho pensato che anche se una persona non può più vivere su questa terra, può comunque vivere per sempre in un racconto.
D’altronde, la scrittura, serve a questo. A lasciare una traccia.
Il giorno in cui mi arrivarono a casa quei fiori, trovai anche un biglietto, scritto dalla mamma della mia coscritta.
Quel giorno ho pianto senza riuscire a fermarmi.

Succedevano cose molto belle, in continuazione.
Ma tutte queste cose non riguardavano me.

Non ero io il centro di quel turbine.
Erano le altre persone.
E in quel momento mi sono resa conto che non era il mio nome la cosa più importante di quel libro.
Erano tutte le altre persone al quale era legato.
Da quel momento in poi, smisi di focalizzarmi sul mio nome in copertina
.

Divenne una priorità per me fare in modo che le persone parlassero del libro.
Ma in che modo dovevo muovermi?


In qualche modo, fare quelle liste mi aiutava ad organizzare la giornata.
Riuscivo sempre a portare a termine ciò che mi ero scritta e ad ottenere anche dei buoni risultati.

Nel giro di due mesi avevo venduto circa cinquecento copie, tra eBook e print on demand.
Avevo ottenuto un buon numero di recensioni, tutte positive.
Dopo tre mesi, il mio libro era primo nella classifica IBS.it degli eBook più regalati dell’anno.
Forse per alcuni sembrerà poco. Per altri, sembrerà tanto.
Per me non era né tanto né poco: erano semplicemente obbiettivi che mi ero prefissata di raggiungere.
Mi limito a riportare quanto è successo e quanto ho ottenuto, sapendo di averci messo tutta me stessa.

Poco dopo che il libro venne pubblicato, mia mamma mi disse: “Sei fortunata che hai trovato persone che ti fanno pubblicità, che ti organizzano presentazioni, che ci tengono a parlare del libro.”
Ma io sapevo che la fortuna, in realtà, non c’entrava molto.

Quando lavori su un tuo progetto, quando sei tu a cercare i contatti, a creare legami,
a fare in modo che le persone credano in quello che stai facendo anche più
di quanto ci creda tu, non è fortuna.
Semplicemente avevi chiaro un obbiettivo: ci hai lavorato su e hai ottenuto dei risultati.
Fine.

Nel processo di scrittura e pubblicazione di un libro, tutti pensano che scriverlo sia la fase più difficile.
Le persone credono che sia quello il vero e duro lavoro e, in effetti, prima di pubblicarlo anche io la pensavo così.
Scrivere in effetti non è semplice.
Assemblare tutti i pensieri fino a dar loro la forma di un libro, lo è ancora meno.

La verità è che, quando il libro venne pubblicato, io ebbi in qualche modo la percezione che il duro lavoro iniziasse in quel momento.
E, effettivamente, questo fu ciò che avvenne.

Dopo la pubblicazione, se non hai una casa editrice alle spalle, devi organizzarti tu.
Quello è il momento in cui cerchi i contatti con persone disposte a parlare del tuo libro sui loro blog, sui giornali: ricerchi interviste, recensioni.
Crei tu stesso dei contatti che poi mantieni.
In che modo?
Con la gentilezza. Con la consapevolezza che niente ci è dovuto da nessuno.
E con l’uso di due semplici parole, delle quali a volte scordiamo l’esistenza: per favore e grazie.
Ma in tutto questo c’era anche qualcos’altro.
In qualche modo, l’aver pubblicato un libro fece maturare in me una consapevolezza.

Io non ero nessuno.
E il fatto di aver pubblicato un libro con il mio nome sopra non faceva di me qualcuno.

In Italia, ogni giorno, vengono pubblicati circa duecento libri.
Ogni giorno. Duecento libri.
Quindi… per come la vedo io, siamo tutti dei “nessuno”.
Tutti noi siamo dei nessuno per il mondo, o per le altre persone.

La soluzione non è cercare di essere qualcuno per gli altri.
Agli altri non frega nulla di noi.
La cosa giusta da fare è cercare di essere qualcuno per noi stessi.

Dunque… dov’ero rimasta?
Ah si, giusto: mantenere dei contatti.
Beh, il passo successivo, almeno per me, fu quello di cercare concorsi letterari e fiere online a cui iscrivere il libro.
Ho creato anche un booktrailer. Anche solo per mettermi alla prova.
E poi… ho cercato di guardare al futuro.
Avendo sempre in mente un obbiettivo.
Il che mi riporta a quest’ultima lista che ho fatto un mese fa:

… Su questi ultimi due punti ci sto ancora lavorando.

Martina Vaggi

Photo credit immagine in evidenza: http://booklovers105.blogspot.com/2020/12/recensione-il-diario-del-silenzio.html

Altre immagini: create su Canva.




Crescita personale

Imparare da un ambiente di lavoro imperfetto: la continua ricerca di un mentore

Sono cresciuta in una famiglia di liberi professionisti. Tutti, a casa mia, hanno sempre lavorato in proprio.
Sono sempre stata abituata a sentire discorsi del tipo: “Avere un dipendente costa ad un datore di lavoro, lo sai, Martina?
E questo è, più o meno, tutto.

Ma cosa succede se capiti in un ambiente di lavoro, diciamo, ecco, non proprio all’acqua di rose?
Cosa ti succede?
Cosa succede alla tua mente?

Quali sono gli effetti sulla tua autostima?

A tutti è capitato, almeno una volta.
Sì, anche a voi.
So che state annuendo.

ambiente di lavoro

Trovarsi in un ambiente di lavoro difficile: adattarsi al peggio

“Ritieniti fortunata anche solo di avere un lavoro”

Questa frase oggigiorno è diventata un mantra, sussurrata, ripetuta e scritta praticamente ovunque.
Io è dal primo anno di università che io me lo sento ripetere. (n.d.r. 2011).
Sempre per via del fatto che vengo da una famiglia di liberi professionisti.

Per una persona che vuole fare la dipendente, è quasi una condanna.

Anyway…
Ovviamente, questi discorsi sono tutti corretti. Tutti di facile comprensione anche per chi, come me, ha sempre fatto la dipendente.

Il problema, a parer mio, del sentirsi continuamente ripetere discorsi simili è che viviamo, da parecchi anni, in una situazione di allarmante crisi, dove chiunque di noi si ritrova a mandare milioni di curriculum tutti i santi giorni e tutti i santi giorni si ritrova… senza una risposta.

E, a lungo andare, si rischia di farsi risucchiare da tutto questo.
E tutto questo rischia di trasformarsi in un vortice di apatia e di pigrizia, del tipo: visto e considerato che devi ritenerti fortunata anche solo di avere un lavoro, allora forse non è il caso di rischiare nel cercarne un altro, giusto?
Ed ecco che, a quel punto, il vortice di pigrizia e apatia si trasforma in un tunnel di paura.

Come se non avessi una via d’uscita.

ambiente di lavoro

All’improvviso, ti senti svalutato e ti svaluti continuamente.
Inizi a pensare di non valere nulla. Inizi a pensare che devi restare lì dove sei, senza osare crescere mai, senza mai osare fare ciò che più vorresti fare.

A quel punto guardi con un misto di invidia/incoscienza chi si ritrova nella tua situazione eppure decidere ugualmente di licenziarsi. Chi decide ugualmente di rischiare e, di punto in bianco, andare via, cercare altro, un po’ perché non si ritrova nell’ambiente di lavoro, un po’ per altri motivi.

Da una parte li invidi. Dall’altra… li reputi degli incoscienti.
Come sempre, i due estremi che fanno parte di noi: così difficili da bilanciare.
Così difficile rischiare, scegliere.

Sono finita anche io in quel vortice.
Come tanti mi sono trovata in un impiego temporaneo, non in linea con i miei studi, che poi, per vicissitudini personali, si è rivelato non essere poi tanto temporaneo.

Come tanti ho avuto paura di mollare la presa per paura di cadere nel vuoto.
E nel mio disperato tentativo di rimanere aggrappata a
qualcosa,
ho continuato a nutrire false speranze sul fatto che le cose, magicamente, sarebbero cambiate.

E così sono finita con lo scivolare e cadere giù.
In quel vuoto in cui avevo così tanta pau
ra di cadere.

Me ne sono accorta anni fa, quando mi sono ritrovata senza più alcuna aspirazione.
Mi sentivo vuota dentro, un semplice ammasso di carne che non conteneva più la persona che ero.
Ero come diventata invisibile, inesistente.

Apatica.
Perennemente svalutata. Perennemente in conflitto con me stessa.
Sempre alla ricerca di un appoggio lavorativo esterno o un riconoscimento, che non arrivava.

Quella sensazione di non essere mai abbastanza per nessuno, di non esistere per nessuno, non mi abbandonava mai.
Mi svalutavo continuamente.

ambiente di lavoro

L’ambiente di lavoro e la resilienza: ricerca la soluzione all’interno di te stessa

Andò avanti così per un paio di anni… fino a quando, capii quale fosse il problema.
Quella sensazione di non essere mai abbastanza per nessuno era legata soprattutto al lavoro che facevo e all’ambiente di lavoro in cui mi ritrovavo.
Ma non era quello il problema di fondo.

Il problema non era la considerazione degli altri. Non era nemmeno l’ambiente di lavoro, come ho avuto modo di capire più in là.
Questo mio disagio nasceva da un altro fatto.

Io che non mi sentivo abbastanza per me stessa.

Ma qual era effettivamente il motivo? Era l’ambiente di lavoro o ero io?
Ero io che facevo fatica a integrarmi? Ero io che non riuscivo a farmi scivolare addosso le critiche, la cattiveria, l’invidia?
Ero io che non sapevo rispondere ai comandi, che faticavo a rispettare i ruoli: ero io che, realmente, avevo qualcosa di sbagliato?

Perché non riesco a trovarmi bene nel mio ambiente di lavoro?
Perché non vado mai bene?
Perché, qualunque cosa faccia, per quanto io mi impegni, la situazione non migliora?

Credo che capiti a tutti di rivolgersi queste domande.
A me capitava tutti i giorni.

Fino a quando ho capito che io non dovevo andare bene a chi avevo intorno.
Io dovevo andare bene a me.
Non dovevo, per forza, andar bene ad un ambiente di lavoro negativo.
Non dovevo cercare di adattarmi a forza a rimanere in una situazione dove non sarei mai stata apprezzata.

Sarebbe stato come forzare il mio corpo dentro una taglia 42.
Non sono una taglia 42 dalla seconda superiore.
Come potevo pensare di entrarci?

ambiente di lavoro

Stare male per un ambiente di lavoro difficile: iniziare un percorso di analisi

Avevo capito che se me ne fossi andata da quel posto prima di imparare la lezione che dovevo apprendere, sarei finita in un altro ambiente di lavoro dove le situazioni negative che già avevo vissuto si sarebbero ripresentate con più prepotenza.

Dovevo capire perché tutto questo mi facesse stare male.

E lo capii cercando un appoggio esterno. Iniziai un percorso di analisi, di introspezione.

Il fatto è che dietro ogni situazione di disagio c’è sempre una grande lezione che puoi imparare per te stessa. E questa ne era la prova.
La prova del fatto che ogni situazione negativa ti spinge, ti sprona, inevitabilmente, verso una risoluzione positiva.

Capii che non dovevo costringermi a ricercare un apprezzamento esterno, perché l’unico apprezzamento del quale avevo bisogno era il mio.

Non dovevo guardare con astio a chi, secondo me, non si comportava nel modo corretto.
Era un loro problema, non mio.

Non dovevo continuare a sforzarmi di trovare un modo di comunicare con le altre persone che mi circondavano, quando non ce n’era mai stato uno.
Non dovevo forzare le cose affinché andassero bene. Non era quello il loro destino o il mio.

ambiente di lavoro

Dopo anni passati a scontrarmi con altri, capivo che il problema era mio e non loro.
Dopo anni in cui l’unica cosa che desideravo fare era andarmene da un ambiente di lavoro in cui stavo male, finalmente capivo il perché questo non era mai successo: non puoi liberarti di una situazione che ti fa soffrire scappando o andandotene sbattendo la porta.

Non ti libererai di una situazione negativa in questa maniera, anzi.
Quello è il modo migliore per trascinartela dietro.
Che cosa dovevo fare allora? Oltre a continuare a guardarmi attorno per cercare altro?

Andarsene da un ambiente di lavoro negativo: inizia a prendere le distanze mentalmente

Dovevo concentrarmi su me stessa.
Dovevo, semplicemente, lasciar fluire le situazioni.
Lasciare che le cose facessero il loro corso.

Che liberazione è stata capire tutto questo.
Da quel momento in avanti, è stato tutto più semplice. O, perlomeno, molto più semplice di prima.

Da quel momento in avanti è stato più naturale esercitare la mia indifferenza ad un ambiente di lavoro al quale non appartenevo più e non avrei più potuto appartenere.

Forse è questo che succede, quando inizi a pensare a migliorare te stessa: smetti istantaneamente di occuparti dei disagi degli altri.
A quel punto, nemmeno ti sfiorano più.
A quel punto sei tu che non permetti più loro di sfiorarti.

Smettendo di cercare il difetto o la colpa negli altri, iniziai a vedere con occhi diversi tutte quelle polemiche alle quali ero costantemente abituata in quell’ambiente di lavoro. Adesso le vedevo per quello che erano realmente: polemiche inutili.
Inutili, nel senso che non erano di alcuna utilità per nessuno.

ambiente di lavoro

Smisi di ascoltare le critiche. Smisi di rispondere.
E iniziai, invece, a pormi molte domande.

Perché ho sempre fatto fatica ad adattarmi a quell’ambiente di lavoro, nonostante l’impegno, il tempo, la fatica?
Forse è quello che succede quando rimani troppo a lungo in un luogo che non è il tuo.

Perché facevo fatica a rispettare i ruoli?
Forse è quello che succede quando, semplicemente, tu non ne hai uno.

Io non avevo un ruolo.
Non avevo una missione.
A quel punto, tutto è andato al posto giusto.

Nella vita bisogna avere un ruolo.
In un lavoro devi avere un ruolo e, cosa più importante, in quel ruolo ti ci devi riconoscere.

Devi esserne parte, sentirlo come tuo.

Un ruolo in cui le tue caratteristiche o doti vengono apprezzate, educate, usate.

Se non hai un ruolo non ti possono gestire.
Se non ti riconosci in un ruolo, diventa difficile anche per te gestire te stessa in quella funzione.

Imparare da un ambiente di lavoro tossico: la continua ricerca di un mentore

Una volta capito questo è stato più semplice guardarmi dentro e comprendere quello di cui io avevo bisogno.

Non stavo cercando un lavoro che mi desse la possibilità di diventare il capo del mondo o zio Paperone pronto a tuffarsi in una miniera d’oro.

Io cercavo un mentore.

Semplicemente.

ambiente di lavoro

A darmene conferma, fu un colloquio che feci non molto tempo fa con un selezionatore che mi stava aiutando a modificare il curriculum. Quel giorno, lui mi chiese:
“Tu che cosa ti aspetti da un’azienda? Cosa vorresti in un ambiente di lavoro?
“In che senso?” gli risposi.

“Che cosa ricerchi in un’azienda? Uno stipendio più alto di quello che hai adesso, un contratto più duraturo oppure..?”
“No.” gli ho risposto io.
“Io cerco un mentore. Una guida da seguire. Qualcuno che mi insegni, che mi permetta di crescere.”

Una guida, un mentore.
Una persona da seguire.

Credo che, in fondo, ognuno di noi cerchi questo.

Seguiamo una scia per poter, un giorno, saper disegnare la nostra rotta.
Questo succede quando ci ritroviamo in un mare troppo grande per noi.

Cerchiamo una guida.
Non perché abbiamo paura di affogare,
ma perché sentiamo il desiderio di imparare a nuotare.

Martina Vaggi

Photo credit: Pixabay, Pexels & Canva


Pensieri sulla pandemia

Come la paura del virus è diventata paura di noi stessi

Un anno fa, in questo periodo di febbraio, sembrava incredibile poter anche solo immaginare di condurre la vita che stiamo conducendo ora.
Eravamo ad un passo dal cadere nel baratro Coronavirus, con le prime avvisaglie di ciò che sarebbe successo in seguito: i primi decreti-legge di fine febbraio, il panico, i supermercati svuotati, le mascherine che non si trovavano, quella paura del virus che iniziava a dilagare.

La paura. Quella dilagante paura.

paura del virus

Infine, il silenzio, che tutti noi abbiamo toccato con mano, dalle finestre aperte, chiusi nelle nostre case.

Tutto è iniziato con la paura. Quella paura ci ha accompagnati per un anno che è sembrato un secolo.
Avremmo mai potuto pensare che sarebbe durata fino ad ora?

Dalla paura del virus alla paura dell’altro

In questo ultimo anno abbiamo subìto enormi cambiamenti.
Siamo passati dal vivere incuranti di tutto al non vivere perché abbiamo paura di tutto.

Abbiamo paura del virus.
Abbiamo ancora paura di toccarci, di uscire a prendere un caffè, di muoverci di regione per vedere il nostro fidanzato.

Ma più della paura del virus, abbiamo, forse, ancora più paura di noi stessi: di contagiare i colleghi, gli amici, i parenti.
Di diffondere questo maledetto virus.

paura del virus

Abbiamo paura di esprimere la nostra opinione sulla situazione.
Se vuoi uscire appena ne hai la possibilità, vieni additato di non avere a cuore la salute degli altri.

Se dici che vuoi fare il vaccino vieni giudicato.
Se dici che non ti fidi a farlo, vieni criticato dalla fazione opposta.
Perché è questo che siamo diventati: fazioni.
Gruppi separati e distinti.

Da una parte, ci sono i sostenitori, dall’altra, gli oppositori.
Che cosa sostengano e a cosa si oppongano, non è chiaro, forse nemmeno a loro.

Quello che è chiaro è che sembra che quasi nessuno sia più disposto ad impegnarsi su se stesso: occuparsi degli errori degli altri è molto più interessante.

È un buon passatempo, per chi non vuole guardarsi allo specchio.

La paura del virus che diventa paura di noi stessi: la necessità di essere consapevoli di chi siamo davvero

L’introspezione non è molto comune.
Ti porta a prendere consapevolezza.
E la consapevolezza può generare dolore, angoscia, desiderio di cambiare, di migliorare ogni aspetto che non vuoi vedere, sentire di te.

paura del virus

È come aprire la porta di casa tua e scoprire che non abiti da solo. C’è anche qualcun altro lì con te.
E se quella persona non ti piacesse?
Potresti sempre aprire la porta e invitarlo ad uscire.

Solo che quella casa non esiste nella realtà. Sei tu.
E quella persona non è altro che un lato di te che non ti piace.
Ma non la puoi mandare via.
Ci devi convivere.

Per questo serve coraggio ad occuparsi di sé.

La paura del virus che porta agli estremi: la ricerca della via di mezzo

Serve coraggio per cercare la via di mezzo.
Gli estremi sono lì, facili da scegliere. Facili da alimentare.

Li abbiamo avuti sotto gli occhi ogni giorno per tutto questo tempo.
Li troviamo ovunque:

  • ogni volta che apriamo un social e leggiamo i commenti lapidari, offensivi, rabbiosi, sotto la notizia del giorno
  • ogni volta che assistiamo ad una discussione per strada.

Quegli estremi sono dentro di noi, così prepotenti che diventa difficile bilanciarli.

paura del virus

Ma cosa c’è nel mezzo?
Nel mezzo c’è chi vuole semplicemente esprimere un’opinione.

Nel mezzo ci siamo noi comuni mortali che vogliamo pensare alla nostra vita, ai nostri sbagli, a imparare qualcosa da tutto questo per migliorarci.

Nel mezzo ci siamo noi che non vogliamo più avere paura.

Nel mezzo c’è chi, come noi, vorrebbe solo dimenticarsi di tutte queste polemiche e tornare a vivere con più serenità di prima.

Nel mezzo ci siamo noi che ci tappiamo le orecchie e ci copriamo gli occhi per non sentire, per non vedere tutta questa rabbia.
È difficile non sentirla. È difficile non vederla.

Perché non è solo il virus a essere subdolo.
C’è il virus e poi c’è quella paura che ci tira fuori.

E poi c’è anche quella parte oscura, che ognuno di noi possiede e che questa situazione sembra tirar fuori, con prepotenza.

Quella paura ancestrale di ammalarsi, di contagiare gli altri, di morire, di non essere in grado di vivere veramente.
Il virus fa paura: spaventa, contagia, uccide.
Il resto… Lo facciamo noi.

Martina Vaggi

Photo credit: Pixabay